la Repubblica, 3 luglio 2018
Questa stanza non ha più pareti
Si può vivere in una casa senza finestre? Probabilmente sì. I nostri antenati remoti lo facevano. Vivevano in spazi chiusi, comunicanti con l’esterno solo mediante piccoli pertugi: caverne, anfratti, capanne. Oggi esistono residenze minuscole nelle città giapponesi, dove si vive e si riposa senza avere una visione dell’esterno. Eppure la finestra è un elemento essenziale dell’architettura; è come un occhio aperto verso l’esterno, che abbiamo imparato a socchiudere o chiudere con tende, ante, gelosie, tapparelle, a seconda delle ore del giorno. Eppure quando campeggiamo ci chiudiamo dentro tende di tessuto sottilissimo, dove lo spazio esterno è escluso, membrane osmotiche, come scrive Matteo Meschiari in Disabitare.
Antropologie dello spazio domestico (Meltemi), «che rendono opaca la vista ma che aprono lo spazio domestico a un’esperienza mediata col fuori».
Nella tenda siamo come immersi in una sorta di liquido amniotico. Una delle più antiche e suggestive residenze umane, nota come le Capanne di Mezyriz, si trova in Ucraina, e risale a 15.000 anni fa; circondate da ossa di mammut, poste alla base, tutto intorno, erano ricoperte di pelli dei medesimi animali, sostenute da pali e intelaiature di legno. In quelle abitazioni – forse luoghi rituali – il rapporto tra il dentro e il fuori, era mediato dall’animale, centro della ecologia materiale degli abitanti. Il senso di quegli spazi, scrive Meschiari, stava più nel “dentro” e molto meno nel “fuori”. La capanna di Terra Amata nei pressi di Nizza, scavata nel 1966, risalente a 380.000 anni fa, epoca dell’Homo erectus, o come sostengono altri invece a 230.000 anni, era composta di pali di legno e copertura vegetale; possedeva un foro nel tetto per fare uscire il fumo del focolare. I nostri progenitori stavano abitando o solo riparandosi?, si domanda Meschiari.
Il suo libro si occupa di capanne, bivacchi, tende, rifugi. Parte dalle prime abitazioni preistoriche e arriva alle abitazioni di Brazil, il film distopico di Terry Gilliam, per indurci a ragionare su quelle che si possono considerare esperienze estreme dell’abitare, che ci aiutano a capire in cosa consista oggi il nostro vivere, mangiare, dormire in un’abitazione.
Oltre alla finestra, elemento fondamentale dell’abitare, ce n’è un altro di solito meno considerato: il soffitto. Salvo in due casi estremi: quando si è costretti a letto malati o durante un ricovero ospedaliero. Accade anche di visitare dimore del passato; allora si alza la testa al soffitto affrescato e ci si accorge che il soffitto è una componente essenziale dell’abitazione, proprio come quel buco nella capanna di Nizza che, non solo faceva uscire il fumo, ma anche osservare il cielo là fuori. In una conferenza di diversi anni fa, pubblicata su questo giornale, James Hillman, notò quanta poca importanza si dedica al soffitto nelle case e a quello dei luoghi pubblici, tanto che guardando in alto in questi si scorgono «isole sparse di bocchette di ventilazione, rilevatori di fumo, diffusori, altoparlanti, forse un’insegna rossa per l’uscita affissa in alto, forse una telecamera, e le luci incassate, oppure tubi fluorescenti ingabbiati». Il rapporto tra microcosmo e macrocosmo, su cui il geografo e antropologo Matteo Meschiari richiama la nostra attenzione, era fondamentale, e lo si coglieva nei soffitti. E oggi? Non c’è più, scomparso. Forse perché viviamo di più all’aperto? Probabilmente no. Oggi l’abitare è giocato intorno a due categorie: domesticità e nomadismo. In modo paradossale prevale la prima. Per quanto noi tutti siamo sempre più in movimento, in apparenza nomadi, lontano dalla nostra “casa”, a determinare lo spazio domestico sono piuttosto il cellulare e il computer. Siamo sempre collegati e quindi sempre residenti. La casa l’abbiamo in tasca. Il nomade vero di oggi non è l’uomo che attraversa i continenti con il Gps in tasca, bensì colui che è disconnesso, e perciò non è mai a casa sua da nessuna parte. Il nomade attuale è escluso, per propria o altrui decisione, dal mondo digitale. Inoltre la nostra domesticità appare sempre più determinata dalle cose che possediamo, o usiamo. Le cose sono protesi mobili o immobili dell’architettura, abbozzi di luoghi che si attivano o si spengono al nostro passaggio, «le cose che accumuliamo funzionano non solo per lo scopo primario per cui nascono (un bicchiere per bere, una sedia per sedersi), ma anche per tutte le altre azioni potenziali che la mente plastica può inventare per loro». Siamo destinati a “disabitare”, come scrive Meschiari, o invece il nostro abitare è in un punto di svolta?
Richard Buckminster Fuller, architetto e inventore, progettista delle cupole geodetiche, una delle più affascinante strutture per abitare, lavorare, ricercare, prototipo del futuro, in un saggio del 1969, scritto nell’epoca dello sbarco dell’uomo sulla Luna, enucleò un modello futuribile.
Tradotto ora in italiano la sua proposta suona emblematicamente: Manuale operativo per Nave Spaziale Terra(tr aduzione di Di Dato, il Saggiatore). Vi propone un’altra versione del “disabitare” diversa da quella di Meschiari: il volo nello spazio dell’intero Pianeta Azzurro, la casa delle case. Sarà questa l’utopia che abiteremo a breve oppure torneremo alle case amniotiche dei nostri progenitori?