Da James Baldwin a Ta Nehisi Coates. Il racconto dell’esperienza afroamericana si nutre sempre più della forma del “memoir”.
«Qualunque forma d’arte che mostri passione e vita è la via per farci comprendere meglio dagli altri. Memorie, romanzi, poesie: ma anche musica, teatro, arti visive.
Solo che per entrare nella pelle di un altro anche il pubblico deve fare uno sforzo: aprirsi verso altre culture e linguaggi».
“Negroland” è il racconto fatto con gli occhi di quei neri che si sentivano più fortunati perché meno “neri”.
«Oggi non c’è più un’unica letteratura nera: ce ne sono tante.
Dalla generazione di Toni Morrison a poetesse come Claudia Rankine e Tracy K. Smith. Perché se è vero che tutti i neri d’America condividono una radice storica, c’è stata anche troppa semplificazione. “Negro”, scritto con la N maiuscola, è parola che non userei in una conversazione: ma l’ho scelta come simbolo di un periodo storico, quando negli anni 50 e 60 era in quel termine che ci si identificava.
E l’ho combinato con “Land”, terra, per dare il senso di come ci considerassimo razza e classe a parte. Americani, certo. Ma spinti dalla stessa storia americana a vivere in un mondo separato».
Lei descrive una società dalle regole ferree.
«Eravamo un’elite che puntava tutto su decoro e buona educazione. Bisognava avere un comportamento esemplare: ogni mancanza sarebbe stata la mancanza dell’intera razza. E uso il passato, ma è vero anche oggi».
Si è detto anche a proposito degli Obama alla Casa Bianca.
«Se gli Obama fossero stati meno che perfetti, un loro qualunque gesto avrebbe fatto dire: il presidente non vale quanto un bianco. È uno dei pilastri della discriminazione».
Oggi in quella stessa Casa Bianca c’è Donald Trump.
«Si fosse comportato come Trump, Obama sarebbe stato cacciato in meno di un anno».
Quando Obama fu eletto si parlò di società post razziale: ci ha mai creduto?
«No. Un singolo evento, per quanto storico, non fa piazza pulita di vecchie forme di pregiudizio. Per quanto sia stata felice della sua elezione ho sempre pensato che ci sarebbero state conseguenze. E infatti. La marcia di Charlottesville del Ku Klux Klan lo dimostra».
Trump ha dato un volto “pulito” al razzismo?
«Direi piuttosto che ha dato libertà di ostentare la faccia sporca. Fa sembrare il razzismo più civile con l’espediente della vittimizzazione: “I neri vanno avanti e noi restiamo indietro. Siamo vittime”. E il razzismo è giustificato. È quello che i conservatori stanno facendo ovunque: anche da voi in Europa. I carnefici sono loro eppure si dipingono come vittime: criticano minoranze, donne, omosessuali dipingendoli come aggressori».
Dall’altra parte oggi l’orgoglio nero è diventato mainstream: un successo senza confini di razza. Cosa ci insegna il trionfo al cinema del primo supereroe nero, Black Panther?
«Mi ha divertito l’uso della fantascienza per tracciare una storia della cultura nera: dagli antichi riturali africani al mondo contemporaneo. Ma spero serva ad aprire il vado di Pandora di altre possibilità. Cioè non solo supereroi neri: altrimenti diventa un cliché».
L’avrà avuto anche lei un suo “supereroe”.
«Senz’altro Florynce Kennedy.
L’avvocatessa che difese Billie Holiday. L’attivista femminista che chiamò al boicottaggio di Coca Cola e Miss America. Seppe coniugare l’orgoglio dei Black Panther col femminismo. Una forza della natura. E una donna molto divertente.
Quando l’accusarono di proporre il femminismo, considerato cosa da bianchi, rispose: “Avete imitato ogni loro cattiva attitudine, dai capelli all’idea di femminilità: e ora fate le schizzinose verso la loro prima vera buona idea?”».