il Giornale, 3 luglio 2018
«Sognavo di fare le Olimpiadi, oggi sono il loro cerimoniere». Intervista a Mario Balic
Marco Balich, 56 anni, di Venezia, è il gran cerimoniere d’Italia, nota firma di spettacoli delle meraviglie. Su tutti: le cerimonie per le Olimpiadi di Torino 2006, Sochi 2014 e Rio de Janeiro 2016. Ora è in corsa per Tokyo 2020. È il re Mida dello show. Del resto, solo uno come lui riesce a trasformare il Giudizio Universale di Michelangelo in uno spettacolo cui partecipano i Musei Vaticani, Sting per la colonna sonora, Susan Sarandon come voce della Bibbia, Pierfrancesco Favino, esperti di videogame. «Giudizio Universale – Michelangelo and the secrets of the Sistine Chapel», è una delle sue ultime creature.
Tutto prende corpo nella Balich Worldwide Show, società produttrice di eventi live che fattura 100 milioni, conta 119 dipendenti, opera a Milano e fa viaggiare spettacoli nel mondo intero. E spesso nei Paesi che dopo anni d’ombra ora vogliono raccontarsi in modo spettacolare e hanno le risorse per affrontare costi importanti. Nel portfolio clienti svettano gli Emirati Arabi, Kazakistan, Turkmenistan, Cina, quindi colossi industriali e dell’imprenditoria decisi a celebrare i propri marchi. C’è poi chi si rivolge alla BWS per eventi privati, come matrimoni galattici, un genere che piace ai magnati indiani e russi o comunque a chi vuole stupire con effetti speciali e non bada a spese.
Ora siete in lizza per le cerimonia delle Olimpiadi di Tokyo.
«Se andasse in porto sarebbe davvero l’incoronazione».
Ma l’esordio fu con le Olimpiadi nel 2002 a Salt Lake City. Possiamo considerarlo il vostro battesimo?
«Sicuramente. Ero lì per seguire il primo passaggio di bandiera a Torino, la città che avrebbe ospitato le Olimpiadi successive. L’11 settembre non era lontano, ed il clima era pesante. C’erano controlli pazzeschi su tutto ma vidi lo show più bello del mondo, e soprattutto non c’era nessuna presenza politica. Era presente il gotha dello spettacolo a stelle e strisce, dal regista delle tournée di Michael Jackson ai grandi coreografi, produttori, costumisti, autori di colonne sonore: era un consesso di talenti pazzeschi. Questo è quello che voglio fare da grande, mi dissi».
Vide la luce?
«Ero fortemente determinato a portare a casa le cerimonie d’apertura delle Olimpiadi di Torino: divenne il mio obiettivo prioritario. In quella fase, il mercato era dominato da americani, inglesi e australiani. Mi sentivo come uno che scala l’Everest».
Che strategia adottò?
«Io non sono un regista, quindi iniziai a chiedere a vari registi di cinema, teatro e opera chi di loro avrebbe voluto fare le Olimpiadi. Nessuno. Taluni dicevano che le Olimpiadi erano operazioni da multinazionali, altri temevano di rovinarsi la carriera, altri avevano l’agenda piena. Non avevano colto importanza dell’evento. Così decisi che lo avremmo fatto noi in prima persona. E alla bell’età di 45 anni ho iniziato a fare il regista e il direttore creativo dei grandi show».
E da allora anche una società italiana è entrata nel ristretto novero dei produttori di show.
«La cerimonia di Torino era piaciuta. Il nostro approccio convinse. Ora nel mondo dei grandi show siamo in tre: noi, un’azienda americana e una australiana».
Cosa continua ad attrarla delle cerimonie olimpiche?
«Il fatto di essere al servizio di un marchio gigantesco, di preparare qualcosa per il mondo. Sei chiamato a tradurre temi di grande impatto come la fratellanza, il rispetto fra le persone, la laicità delle nazioni. Che poi sono i temi riportati nella carta dei diritti dell’uomo. Sai che domina l’equità per cui Paesi ricchi e poveri una volta tanto sono sullo stesso livello. Alle ultime Olimpiadi abbiamo visto sfilare le due Coree. È un momento di aggregazione, un appuntamento con la storia di un Paese. Tutto va raccontato con grandi metafore, il mondo s’aspetta una narrazione super-spettacolare».
Che vincoli avete voi cerimonieri? A cosa non potete non rinunciare?
«C’è uno scheletro della cerimonia, punti fermi come l’accensione della torcia, la citazione della colomba della pace. Però a ogni edizione si aggiunge qualcosa. Ad aver introdotto la torcia, per esempio, fu Albert Speer, l’uomo che si vendette al diavolo (fu l’architetto personale di Adolf Hitler ndr), ma a cui va riconosciuto il merito di aver impresso un senso di solennità alle cerimonie che così cambiarono marcia».
Sono feste faraoniche dai costi stellari. Ma quanto stellari?
«70 milioni per Rio, ma a Londra 160: questo è stato lo spettacolo più costoso fino ad ora. Del resto l’audience è straordinaria: per Rio la cerimonia venne seguita da 3 miliardi di persone. Tutti si sentono rappresentati. È lo spettacolo con il cast più esteso al mondo».
Quante persone coinvolge?
«Fra le 5mila e le 6 mila. Tutti volontari».
Quindi da svezzare.
«Devono essere formati, ci vogliono almeno quattro mesi di prove. E poi vanno trattati bene, altrimenti se ne vanno. In realtà sono loro i più grandi fan. Sanno che stanno facendo qualcosa di unico».
In quanto si monta una cerimonia?
«Per i primi sei mesi selezioniamo il team creativo e l’idea portante, per i sei mesi successivi si va a creare il budget. Altri sei mesi la prototipizzazione, e gli ultimi sei per le prove».
Lei che rapporto ha con lo sport?
«Mancai per un pelo le Olimpiadi di Mosca. Tiravo di scherma. Avevo tante speranze, lo ammetto».
Pratica ancora la scherma?
«Non ho tempo. Però scio e cerco di muovermi il più possibile in bicicletta. Vede, per Milano ho questa bici con le gomme larghissime così non ho problemi con le rotaie del tram».
Il vostro Giudizio Universale è costato 9 milioni. Un atto di coraggio imprenditoriale
«Sì, rischiamo tanto. Vorrei sottolineare che è un servizio offerto alla città, però è un investimento tutto nostro. Non un soldo pubblico».
È quasi un azzardo investire nella Roma di questi tempi
«Ho pensato a Roma, perché ha bisogno di pacca sulla spalla».
E comunque state avendo successo, cosa non scontata all’inizio.
«Stiamo colmando un vuoto. Nella grandi città come Parigi, Londra o New York vi sono sempre spettacoli permanenti. Ora lo stiamo sperimentando anche noi. Lo show viene trasmesso due volte al giorno per sei giorni, all’Auditorium Conciliazione di fronte ai Musei Vaticani».
Perché celebrare la Cappella Sistina?
«Perché è un’icona dell’umanità. Vorremmo seminare delle curiosità, soprattutto fra le nuove generazioni. È un’esperienza complementare alla visita».
È stata un’impresa convincere i Musei Vaticani?
«Ci sono voluti tre anni. Però eccoci qua».
Cosa risponde a chi non approva l’idea di spettacolarizzare l’arte?
«Avevamo messo in conto che in tanti ci avrebbero aspettato al varco coi fucili spianati. Abbiamo voluto spettacolarizzare l’arte senza timori di snobismo intellettuale applicando la tecnologia dei grandi show al nostro patrimonio culturale. Abbiamo sintetizzato in modo nobile un contenuto reso fruibile, o almeno questa è la nostra sensazione. Non dimentichiamoci che è dall’epoca della nascita dell’opera lirica, quindi dal Seicento, che l’Italia non esporta formati di intrattenimento. Da allora importiamo e basta».
Chi sono le figure professionali del vostro studio?
«Di base sono creativi con diverse formazioni. Persone che stanno fra teatro, opera, eventi, concerti, tutti elementi che se vissuti singolarmente devono star stretti. Chi lavora in BWS è pungolato dalla curiosità di andare oltre, è attratto dall’adrenalina, non si sente mai sazio semmai è desideroso di digerire tutto. Io stesso sono uno che va a vedersi uno show a Las Vegas poi un concerto di monaci».
Lei che formazione ha?
«Ho fatto 19 esami di Giurisprudenza. E con gran rammarico di mamma, non completai gli studi. C’erano già i primi impegni lavorativi».
Era nello staff dei tour degli U2, di Peter Gabriel
«Un promoter mi aveva chiesto di accompagnare una band. Poi ne seguirono altre per un totale di 72 tournée. Venivo da una famiglia normale, e improvvisamente mi ritrovai in alberghi e ristoranti super, discoteche gratuite, glamour. Piuttosto emozionante per un ventenne».
E nel 1989 arrivò il concertone dei Pink Floyd a Venezia. Fu un patatrac.
«Arrivai bello tronfio, sicuro che avrei portato qualcosa di speciale nella mia città. Pensavo all’orgoglio di mamma, dei vicini. In realtà fu un bel disastro».
Pare annunciato.
«L’idea era quella di un evento epocale, a San Marco, su una zattera, fra 10mila barche il tutto culminante coi fuochi d’artificio della festa del Redentore. Non avevamo calcolato che il pubblico non sarebbe stato composto dalle tradizionali famigliole della festa del Redentore, infatti arrivarono 200mila persone da tutt’Europa. Venezia era impreparata a gestire questa situazione. Il giorno dopo c’era immondizia dappertutto, spazzini in sciopero. Un’esplosione di polemiche con la giunta che saltò».
E mamma?
«Piangeva».
Una sberla.
«No, uno sberlone. Di quelli che fanno cambiare rotta. Presi valigetta e andai a Milano. Andai a fare video clips, allora nascevano Jovanotti e Ligabue. Poi dopo 300 video clip dedicati a tutti i grandi, da Vasco a Bocelli, Celentano, Pausini, Zucchero, mi stancai. Ricordo il mio ultimo videoclip su Baglioni al quale non andavano mai bene le inquadrature. Mi aveva sfinito, lo mandai a quel Paese. Dissi basta. Così passai ai primi programmi televisivi applicando i videoclip».
Un’altra svolta...
«Fondai l’Heineken Jammin Festival all’autodromo di Imola. Bellissimo, si facevano dei soldi, recuperavo una parte del mio passato. Tutto bene fino a quando arriva un nuovo direttore marketing e il progetto viene azzerato. Cosa fare? Decisi di spostarmi sugli eventi. Non appena Torino assunse l’impegno delle Olimpiadi, chiamai il Comitato di Torino per occuparmi del passaggio della bandiera. Partecipai alla gara e la vinsi. Nel 2002 ero a Salt Lake City. La svolta».
Dopo questi continui cambi, che rapporti ha con la professione che s’è cucito addosso?
«Sono appassionato di quello che faccio. Riesco a unire istinto primordiale con cultura e ricerca. Passare dallo show del Carnevale di Rio ai protocolli vaticani e alle sensazioni delle Olimpiadi è un qualcosa che non ha prezzo. E prima di tutto, mi dà energia sentire la gente che si entusiasma e confessa di provare brividi vendendo i nostri spettacoli».
Quanto viaggia?
«Vivo in aereo e hotel. Però ricavo sempre spazio per i miei figli».
Dicono che sia lavoro-dipendente
«Impossibile non esserlo quando devi rispettare certe scadenze».
Gli ultimi record da stakhanovista?
«87 giorni di fila di lavoro dalle 9 del mattino alle 11 di sera, sette giorni su sette. Ammetto che a 54 anni inizi a soffrire un po’. Però è un po’ come l’esame di Maturità. Alla fine sei spossato, ma pieno di emozioni, gradualmente ti rendi conto che hai fatto qualcosa che ha sollecitato le emozioni di tantissima gente. Inizi a ricevere sms e email da ovunque. Godo da morire vedendo cosa si apre dopo un anno di lavoro».
È questo il sale del suo invidiabile ottimismo?
«Per creare non puoi essere cinico. Devi essere onesto e fresco di fronte alle novità».