L’Economia, 2 luglio 2018
Lusso, la maison sarà robotica ma resterà artigiana
Robot, non artigiani. Ecco chi c’è dietro le mura di uno dei centri di produzione Gucci, nella campagna fiorentina, ad assemblare sneaker da 650 dollari. È solo uno dei primi passi che la casa di moda italiana sta facendo nel campo delle nuove tecnologie: Marco Bizzarri, presidente e ceo dal 2015, guarda con interesse anche a stampa 3d e riproduzione della pelle in vitro. Fantascienza? «Vogliamo essere sicuri che se sarà possibile farlo, noi non resteremo indietro. Per questo investiamo nelle startup», ha dichiarato all’inaugurazione del nuovo stabilimento ArtLab di Scandicci, dedicato alla ricerca e allo sviluppo di nuovi materiali. Non è l’unico a voler puntare su robot, algoritmi, big data e tutte quelle tecnologie che vanno sotto il nome di industria 4.0: secondo McKinsey tre fashion retailer su quattro prevedono di investire in questo ambito entro la fine del 2019.
Le cifre«Si parla di investimenti (nel 4.0, ndr) pari al 2-3% del fatturato nel migliore dei casi. Mi aspetto che le nuove tecnologie entreranno nei processi produttivi entro i prossimi 18-24 mesi, acquisendo una forza e un impatto simili a quelli che hanno avuto il digitale e l’ecommerce», conferma Antonio Achille, senior partner e responsabile lusso a livello globale di McKinsey. Il Financial Times si chiede se e come i robot cambieranno il settore del lusso ma l’analista nei suoi ragionamenti va già molto oltre: «La sfida sarà inserire queste innovazioni nella catena del valore preservando gli elementi distintivi della magia e dell’artigianalità del prodotto».
I robot in particolare e il 4.0 in generale, secondo Achille, «aiuteranno a personalizzare sempre più il lusso, rendendolo più flessibile. Pensiamo alle sneaker: i consumatori possono già progettare modelli propri e riceverli in tempi record, mentre le aziende avranno sempre più informazioni a disposizione per intercettare e anticipare le nuove tendenze».
Tante aziende del comparto stanno puntando sui robot (Gucci lo ha già fatto, René Caovilla ne ammette l’importanza ma per ora pensa soprattutto ai big data, Prada ci sta riflettendo: «Valuteremo più avanti», ha dichiarato l’ad Patrizio Bertelli), ma Achille avverte: «Non pensiamo solo ai macchinari: occorre ripensare in ottica 4.0 i processi chiave all’interno delle aziende e in particolare la relazione con il cliente. Per farlo servono investimenti: i gruppi, che hanno le spalle più larghe, sono avvantaggiati. Le singole aziende, specialmente quelle italiane, possono aiutare le realtà più piccole che fanno parte del loro indotto ad evolversi, facendo da capofila nei distretti e favorendo e coordinando gli investimenti».
Doppio taglioL’innovazione può essere un’arma a doppio taglio: chi non crede nelle nuove tecnologie rischia di essere tagliato fuori, chi le adotta troppo in fretta rischia di perdere l’artigianalità. Così la pensa Johann Rupert, fondatore e guida del gruppo svizzero Richemont (ne fanno parte Cartier e altri brand del lusso), secondo il quale l’artigianato in Europa va difeso dalle nuove tecnologie. Un punto di vista che molte aziende, soprattutto pmi, condividono: «Anche questa è una sfida: in Italia ci vuole un cambio di cultura all’interno delle aziende», sottolinea l’imprenditore Andrea Illy, presidente di Altagamma, fondazione che riunisce le imprese dell’alta industria culturale e creativa italiana. I dati che sottolineano come le nuove tecnologie cambieranno il mercato del lavoro (secondo lo studio Jobs lost, jobs gained pubblicato da McKinsey a fine 2017, entro il 2030 la percentuale di forza lavoro che potrebbe dover cambiare occupazione e acquisire nuove competenze è pari al 5-15% a livello globale) non lo spaventano: «Gran parte della manodopera passerà ai robot ma l’artigiano non sarà tagliato fuori. Verrà solo ribaltato il paradigma: prima la macchina aiutava l’uomo, ora sarà l’uomo ad aiutare la macchina». Gli studi in effetti lo anticipano: ci sarà sempre più bisogno di competenze tecnologiche, sociali ed emotive e sempre meno necessità di capacità cognitive di base, fisiche e manuali. Per Illy, «siamo davanti a una nuova rivoluzione industriale che non si limita ai robot ma porta in campo anche biotecnologie, droni, stampa 3d, energie rinnovabili. L’unico rischio? Svegliarci troppo tardi e perdere il nostro primato».
Ma ci sono anche le vie di mezzo. Per esempio, «lasciare la manodopera in mano agli artigiani e usare i robot per altre fasi», spiega Alessandro Brun, direttore del master in global luxury goods and services management della School of management del Poli-Mi. Tra questi modelli ibridi, il più interessante secondo lui è quello di Ferragamo: «Al lavoro sui prodotti ci sono operatori con almeno dieci anni di esperienza. Ma il magazzino sarà completamente automatizzato». Da Ferragamo non scendono nei dettagli: quello citato da Brun è il nuovo polo logistico toscano di Osmannoro, un «progetto completamente automatizzato» che, confermano, «sarà pronto per l’autunno». Ma se non sono gli esseri umani a realizzarlo si potrà ancora chiamare lusso? Il dubbio è di Diego Della Valle, ad di Hogan e Tod’s. Potrebbe avere ragione. Oppure no. Prevede Achille: «E se fosse il momento di ridefinire il lusso? In futuro potrebbero esisterne due tipi: quello tradizionale, basato sull’artigianalità ma anche su tempi di lavorazione lunghi, e quello che beneficia appieno del 4.0 con forti elementi di personalizzazione e velocità. È però più affascinante pensare che i brand riusciranno a fondere gli elementi del 4.0 in un’unica nuova formula, mantenendo l’autenticità del prodotto e facendo leva sul tech per arricchirlo».