«Tony Robbins era capace di fissarmi e beh, sai com’è, non so perché avesse parlato di suicidio, ma ha potuto affermare con sicurezza che ero davvero molto giù» ricorda West nella sua casa semplice e moderna qui a Jackson, Wyoming, che ha preso in affitto e dove fa musica.
«Ero sotto farmaci, tenevo le spalle sempre basse e la fiducia in me stesso se n’era andata.
E c’è proprio la fiducia all’origine dei miei superpoteri, perché se hai davvero fiducia in te stesso, nessuno può criticarti o dirti nulla».
Robbins, famoso per i suoi seminari sopra le righe, che prevedono perfino di camminare sui tizzoni ardenti, era stato convocato dalla moglie di West, Kim Kardashian West, per una sorta di intervento di emergenza. La guarigione non è stata istantanea. «Mi sentivo ancora a disagio» racconta West. Quello, in ogni caso, è stato l’inizio.
Negli ultimi due anni per West ci sono stati lunghi periodi di caos assoluto, traumi pubblici, un interessamento superficiale per la politica schierata e problemi di salute, combattuti sia in privato sia sotto gli occhi di tutti. A seconda dei momenti, West è stato oggetto di empatia, entusiasmo o scherno. Per molti, il fatto che abbia scelto di appoggiare il presidente Donald Trump e poi la sua controversa chiacchierata sulla schiavitù su Tmz a maggio, è stato davvero troppo. E le due cose gli hanno alienato molte simpatie.
Nelle ultime settimane ha pubblicato cinque album: il suo ottavo, Ye, la collaborazione con Kid Cudi, Kids see ghosts, ma anche i dischi di Pusha-T, Nas e Teyana Taylor di cui è produttore. Buona parte di quella musica è nata qui. West frequenta questa zona regolarmente fin dall’inizio del 2017, pochi mesi dopo il suo ricovero in ospedale. «Siamo venuti qui per la convalescenza. Per rimettere insieme le mie idee e il mio cervello». Era ancora sotto farmaci all’epoca — gli avevano diagnosticato da poco un disturbo bipolare — ma col tempo ha iniziato a «capire in che modo poteva non essere costretto ad assumere farmaci». E aggiunge orgoglioso che negli ultimi sette giorni ha preso «soltanto una pillola».
A cominciare dalla metà di aprile, West è tornato su Twitter con la forza di un tornado, postando un mare di vecchie foto, slogan di auto-aiuto, aforismi di leader di culto, aggiornamenti sulla sua linea di abbigliamento e — quanto mai dirompenti — continui echi di opinioni conservatrici e un sostegno a Trump pressoché doppio rispetto a prima. «C’era chi diceva che Trump non avrebbe mai vinto», dice West. Dal suo punto di vista, non faceva altro che appoggiare un amico e uno spirito fraterno, e parlare anche come altri non sarebbero disposti a fare, come per altro è sua abitudine. «Avevo l’impressione di conoscere persone che avevano votato per Trump, erano Vip e avevano paura a dire apertamente che a loro Trump piaceva. Ma a me l’avevano detto e io non ho paura a dire che cosa mi piace».
Esiste qualcosa di veramente inaccettabile che una persona può fare, al punto che non sarebbe più disposto a sostenerla, anche se le piacesse?
«Avrei voluto mettere sulla copertina del mio album il medico che ha eseguito l’ultimo intervento chirurgico di mia madre (morì il giorno dopo, ndr). Penso che fosse una cosa alquanto forte ed estrema, sul piano culturale. Ho iniziato a dire che non l’avrei rimosso solo perché il mondo lo ha fatto. Io credo che nel tribunale dell’opinione pubblica quel pensiero deve cambiare».
Pensa che la gente abbia determinate aspettative su di lei, perché è un nero di grande successo in questo paese? Pensa che la gente si aspetti da lei certe posizioni politiche o culturali?
«Oh, di sicuro. Quando ero al liceo, la maggior parte delle mie opinioni me le tenevo soltanto per me e per un paio di altre persone che la pensavano come me».
Invece adesso avverte la pressione a parlare a nome di un gruppo di persone?
«Diciamo di no, si tratta di una domanda retorica idiota. Potrei rispondere anche di sì. Ma pensa davvero che ci siano molte coppie nelle quali al marito piace Trump, e lo vota, mentre alla moglie invece no, o viceversa?».
Naturalmente.
«Senta, hanno provato a castrarmi: “Ti deve piacere Hillary! Devi scegliere così!”».
Glielo diceva la sua famiglia?
«Per famiglia si intende il mondo, perché quando sei nero, quando fai musica — e parlo di una musica molto sensibile, perché io sono un’anima molto sensibile — è un po’ come trovarsi alle prese con un matrimonio combinato o qualcosa del genere. E non è il matrimonio che voglio io. Credo di essere un padre migliore e un artista migliore perché mi sono riappropriato delle mie opinioni. Vivevo all’interno di un universo creato dal pensiero di massa e avevo perso completamente di vista il mio vero io. È questo che mi è accaduto quando sono crollato. Se adesso mi guardi dritto negli occhi, non vedi niente del genere».
Quando c’è stata la svolta?
«Quando ho iniziato a uscire e ho imparato a non usare troppi farmaci. E poi semplicemente decidendo che stavo rischiando di perdere molte cose. Dicendo quello che penso, senza stare neanche tanto a farci su tante ricerche. Facendomi un’opinione politica sulla base di molte informazioni… un po’ come imparare come ti devi vestire rispetto a quando non lo sai perché sei piccolo. Sento Trump parlare e mi piace, mi piace quello che dice. E so che ci sono persone alle quali io piaccio ma che non amano quello che dice Trump».
Tuttavia, se Trump dicesse qualcosa di preciso, per esempio che non intende permettere ai musulmani di mettere piede in questo paese, le piacerebbe?
«No, non sono d’accordo con tutte le sue idee politiche».
In un’intervista a Tmz ha detto che 400 anni di schiavitù “sembrano una scelta”. Colpa del linguaggio, non delle sue idee, ha spiegato. Come si sente quando sa che un esperimento non ha funzionato?
«Meravigliosamente. Ho imparato molto. Ho imparato ciò che c’è dietro il concetto della parola schiavo. Non lo avevo capito in quel contesto. Penso che la mia energia e la mia personalità rispecchino quelle di Nat Turner (guidò la rivolta degli schiavi del 1831 in Virginia, ndr), o forse l’abbiano rispecchiate in passato. Ma mi ha fatto capire anche che l’approccio di Turner mi avrebbe fatto finire esattamente dove è finito lui, e che sarei diventato leggendario sì, ma anche martire. Immagino, però, che in fin dei conti siamo tutti martiri e tutti abbiamo un’unica garanzia: prima o poi moriremo».
Per chiarire: crede che la schiavitù in questo paese sia stata una scelta?
«Non ho mai detto una cosa del genere».
Se potesse ripetere quello che ha detto, quali parole userebbe oggi?
«Non riassumerei la cosa in uno slogan o un titolo. Quello che direi è che mi sento letteralmente sotto giudizio, tenuto a giustificare una rapina che di fatto non ho commesso, e obbligato a ripetere qualcosa che non ho mai detto. Mi sento stupido a dover dire ad alta voce che so cosa ha voluto dire essere trascinati su una nave negriera… ma non mi tiro nemmeno indietro, fratello. Al contrario, mi assumo la responsabilità del fatto di aver permesso alla mia voce di essere usata in modi che non l’hanno tutelata, proprio quando la mia voce significava tantissimo».
Pensa che se i suoi fan afroamericani la abbandonassero sarebbe un colpo irrimediabile per lei?
«Una cosa del genere non accadrà».
Non accadrà e basta?
«Come ho già detto, non lo faranno. Certo, la gente ha tante opinioni diverse. Non sempre andremo d’accordo, ma i miei fan non se ne andranno».
Con appena sette canzoni, Ye è concepito con meticolosità minore rispetto ai suoi lavori del suo periodo più popolare. Ma contiene tutti gli elementi tipici di West — le cicatrici di 808s & Heartbreak e il soul di Late Registration — anche se il prodotto finito dà una sensazione più informale rispetto, per esempio, alla sua grande operaMy beautiful dark twisted fantasy. Nel brano di apertura, I thought about killing you, incombe qualcosa di cupo: “Oggi ho pensato di ucciderti, assassinio premeditato/ ho pensato di uccidermi/e io, io mi amo molto di più di quanto ami te”.
Fino a che punto queste parole sono da prendere alla lettera? E fino a che punto le si può considerare metaforiche?
«Ah sì, ho pensato di continuo al suicidio. È sempre un’opzione. Come diceva Louis C.K.: “Sfoglio il manuale e soppeso tutte le possibilità”». Poco dopo aggiunge: «In questo periodo sto avendo una vera epifania, perché non l’ho fatto, non mi sono suicidato, ma ho continuato a pensarci. Se però non avessi pensato al suicidio per tutto il tempo, forse ci sarebbe stata qualche probabilità in più che l’avrei fatto». Se esiste una forza disciplinata che l’ha aiutato in questo periodo tumultuoso è sicuramente Kim, che West ha sposato nel 2014. Hanno tre figli: North di cinque anni, Saint di due e Chicago di cinque mesi. Le loro vite e i loro affari sono in simbiosi.
Lei ha preso un volo per il Wyoming e in seguito si sono tenuti regolarmente in contatto per telefono. A un certo punto, lei gli ha mandato un video di North che canta il ritornello di No mistakes e West l’ha visto e rivisto decine di volte, incurante di chiunque si trovasse con lui nella stessa stanza.
Uno dei brani di Ye che lasciano maggiormente il segno è Wouldn’t leave, nel quale West lascia intendere che l’intervista a TMZ ha messo a rischio il suo matrimonio. «C’è stato un momento in cui, sì e no una settimana dopo, ho avuto l’impressione che tutte le energie mi avessero abbandonato. Ho telefonato a tanti nostri familiari e ho chiesto se Kim avesse pensato di lasciarmi». Come molte canzoni di Ye, anche questa è personale ma anche professionale, micro e macro, individuale e universale. West in questo brano fa la serenata non soltanto a sua moglie, ma anche a tutti i suoi fan che gli sono stati sempre vicini in questo periodo così difficile. O per meglio dire, come rappa in No mistakes, “Per tutti i miei cani che si sentivano giù: siamo di nuovo in piedi”.
©2018 The New York Times
(Traduzione di Anna Bissanti)