Una laurea in Biologia, un esordio letterario tardivo, Ulitskaja oggi è l’autrice russa più letta e amata in patria e all’estero: quindici romanzi tradotti in quaranta lingue. Prima donna a essere insignita del più prestigioso premio letterario russo, il Russkij Buker. È una delle poche intellettuali “dissidenti”: il giorno prima del nostro incontro era intervenuta a un comizio per le libertà. Del resto il dissenso ce l’ha nel sangue: classe 1943, due nonni internati nei gulag, madre e padre di origine ebraica, ha vissuto la repressione da lettrice (ricopiare a macchina un libro proibito, un “samizdat”, le costò il lavoro) e quella odierna da scrittrice. Dopo Una storia russa aveva detto che non avrebbe più scritto romanzi. Fortunatamente, non ha mantenuto la parola. Il suo ultimo libro Il sogno di Jacov (La nave di Teseo), arrivato ora in Italia, è ispirato in parte alla corrispondenza tra i suoi nonni, una saga familiare che abbraccia un secolo di storia e quattro generazioni.
Leggendo le lettere del nonno, la protagonista Nora si scopre sempre più simile al progenitore Jakov che non ha mai conosciuto. Il suo romanzo sembra sollevare alcune domande fondamentali sulla vita: fino a che punto il carattere di un individuo è predeterminato dai suoi geni?
«Molti tratti dell’uomo sono predeterminati dalla sua eredità genetica: assomigliamo ai nostri genitori, ereditiamo le loro malattie, il loro temperamento.
Eppure ogni uomo ha la possibilità di costruire la propria biografia. Il conflitto tra genitori e figli esiste sin dai tempi antichi.
Nella letteratura russa c’è il romanzo Padri e figli di Turgenev del 1862. Somigliamo ai nostri genitori, ma siamo diversi da loro. E qui spesso nascono i conflitti generazionali. E così finisce che l’uomo eredita la forma del naso, ma sceglie da sé il modo di pensare ».
Quale ruolo hanno avuto i suoi studi nel suo lavoro letterario? Vede paralleli tra genetica e letteratura?
«Quando mi occupavo di genetica, l’oggetto delle mie ricerche era l’uomo. Quando sono diventata scrittrice, è cambiato solo lo strumento della ricerca, non l’oggetto. Nella nostra epoca la letteratura si è divisa in due correnti: in una al centro dell’interesse dello scrittore ci sono le idee, nell’altra l’uomo. Io appartengo alla seconda. Oggi la genetica è in grado persino di correggere alcuni errori nel Dna.
Credo che la letteratura abbia risorse simili. Posso giudicare da me stessa, dall’effetto che ebbero su di me i libri di Kipling, Tolstoj, Puškin. La letteratura ci modifica, ci innalza, cambia la nostra visione sul mondo e sulla morale».
Che cosa le ha impedito di leggere le lettere di suo nonno per così tanto tempo?
«Custodivo quelle lettere sin dalla fine degli anni Sessanta, quando morì mia nonna. Avevo paura di scoprire qualcosa difficile da elaborare. Trascorsi cent’anni dalla data sulla lettera in cima alla pila, ossia nel 2011, ho capito che dovevo leggerle. Se avessi cominciato a farlo prima, avrei potuto parlare di mio nonno con la gente che lo conosceva. Ora sono tutti morti».
Sembra che anche la Russia tema di guardare da vicino il suo passato e che stia procedendo alla graduale rimozione delle pagine più oscure come i Gulag.
Tacere il passato può abolirne l’eredità?
«È in corso una revisione della storia, un tentativo di renderla più “decente”. A questo si deve la mostruosa distruzione degli archivi del Kgb. Vittime e aguzzini sono morti da tempo. Chi è che si mette a combattere con i morti?
Qui è in gioco la reputazione della struttura che operò questo sterminio, della polizia segreta sovietica e del suo erede, l’Fsb.
L’obiettivo è nascondere i crimini di massa che si praticavano ai tempi dello stalinismo, ma che iniziarono già sotto Lenin».
La letteratura può aiutare il Paese a capire meglio il suo passato e quindi il suo presente?
«Credo di sì. Nella letteratura russa il tema del carcere è sempre stato molto importante. Nessuno scrittore russo, a partire da Puškin, Tolstoj e Cechov fino agli scrittori contemporanei, ad esempio Oleg Razdinskij, ha evitato questo tema.
Un ruolo importante ha avuto Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn, purtroppo letto con più attenzione in Occidente. Qui negli ultimi anni abbiamo assistito alla crescente venerazione per Stalin, il desiderio di rappresentarlo come un grande leader alimentato dalle autorità con ambizioni imperiali.
Parafrasando George Orwell: “Chi è padrone del presente, è padrone del passato”».
Al comizio sulle libertà ha citato l’esempio dei “sette” sulla Piazza Rossa...
«Quando l’Urss intervenne a Praga nel 1968, solo sette persone superarono le loro paure e manifestarono in Piazza Rossa.
Oggi in strada scende più gente, ma meno rispetto al 2011-2012.
Succede per paura. Non si può condannare la gente per questo. Il problema è che si è persa la lingua comune tra società e Stato. I comizi, le manifestazioni sono un tentativo di ritrovarla ».
Il suo romanzo mostra anche l’evoluzione dei ruoli di genere nel Paese nel corso di un secolo. Come sono cambiati?
«Ho sempre creduto che la parte femminile della popolazione russa superasse di gran lunga quella maschile per qualità morali. La donna non ha avuto quasi alcun ruolo nella gestione dello Stato. Ma è proprio la sua posizione marginale ad averla resa più indipendente. Le violenze domestiche sono sempre più frequenti. È un crittogramma interessantissimo per un sociologo: donne di carattere forte spesso sono picchiate e persino ammazzate. Non a caso si parla dell’“enigmatica anima russa”!».