il Fatto Quotidiano, 2 luglio 2018
L’omicidio irrisolto del gerarca fascista che cambiò idea
È morta qualche settimana fa Diana Muti Baldini, unica figlia di Fernanda Mazzotti e del gerarca fascista Ettore Muti, ravennate, legionario fiumano, eroe di guerra e segretario del Partito nazionale fascista fra il 1939 e il 1940. Fu assassinato in circostanze mai chiarite, a Fregene, il 24 agosto del 1943. Nessun organo d’informazione ha dato notizia della scomparsa della signora Diana, nata nel 1929, che per decenni ha cercato di tutelare la memoria del padre e di salvaguardarla dalle strumentalizzazioni politiche neofasciste e pseudostoriche, così come dalle speculazioni commerciali e da quelle di una presunta seconda moglie dell’uomo per il quale Gabriele D’Annunzio aveva coniato l’appellativo di “Gim dagli occhi verdi”.
Nell’agosto del 2008, raccontò allora il quotidiano bolognese Il Resto del Carlino, Diana Muti Baldini aveva rotto il suo riserbo, stanca del fatto che il padre “fosse oggetto delle più becere strumentalizzazioni politiche e private”, dalle “manifestazioni che, ogni fine agosto, animano il cimitero di Ravenna con saluti romani, bandiere e slogan fascisti, alle esternazioni di Araceli Ansaldo, signora spagnola che senza alcuna prova, da anni si presenta come seconda moglie di Ettore Muti”. Insieme alle figlie Caterina e Marina, diede così mandato alle avvocate Francesca Montanari e Silvana Santandrea “di inviare una serie di diffide alla sedicente consorte, all’Associazione nazionale arditi d’Italia, che ogni anno organizza la commemorazione sulla tomba di famiglia a Ravenna”, e “ad alcuni negozi di Predappio che, senza consenso, utilizzano il nome, l’immagine e il ritratto di Muti a fini commerciali”. Diana Muti, spiegarono le sue legali, riferendosi al raduno commemorativo fascista del 24 agosto, “non ha mai preso parte a questo evento che si configura inequivocabilmente come manifestazione politica. Al contrario parla di vera e propria profanazione della tomba del padre, che al temine della cerimonia viene lasciata in condizioni indescrivibili, ricoperta degli oggetti più disparati. Per non parlare delle bandiere e dei vessilli, vietati dal regolamento comunale sui cimiteri, dei saluti romani e degli slogan che rientrano nel reato di apologia del fascismo”.
Un anno fa, poi, dopo una profanazione teppistica, come affermava il giornale online RavennaeDintorni.it, le spoglie di Muti vennero portate via dal cimitero di Ravenna, e “la sua tomba di fatto non è più tale”. I resti del gerarca “sarebbero stati fatti cremare dalla famiglia. Per questo da qualche settimana non c’è più la lapide che lo commemorava sulla tomba dei Muti”. Sebbene all’epoca dell’omicidio di Muti fosse poco più che una bambina, Diana era l’ultima memoria vivente di uno dei grandi misteri della storia italiana del Novecento: l’assassinio di un potente rappresentante del fascismo, avvenuto un mese dopo la caduta del regime e l’arresto di Mussolini, durante la notte fra il 23 e il 24 agosto 1943, quando i carabinieri del maresciallo Pietro Badoglio si recarono ad arrestarlo nella sua villa a Fregene e ne seguì una sparatoria. “Ma erano davvero dei carabinieri, quelli che gli spararono, o della gente travestita con quelle divise?”. A domandarselo ancora oggi è la signora Ines Rossi, 90 anni appena compiuti, storica fan di Lucio Dalla (gli portava una rosa a ogni concerto) e soprattutto buona amica per tanti anni della figlia di Muti. Nella casa di riposo dove soggiorna, a Bologna, Ines ci racconta del silenzio che Diana aveva mantenuto per tanto tempo su quelle vicende, “per impedire che si screditasse la figura di Muti”, ma anche del desiderio che Ines, dopo la sua morte, “rivelasse qualcosa di ciò che le aveva raccontato”, o promesso di raccontare. A cominciare dai legami di amicizia e di affari del gerarca romagnolo con il petroliere Attilio Monti, deceduto nel 1994, proprietario di raffinerie e di giornali, da Il Resto del Carlino a La Nazione di Firenze. Muti fu accusato di avere favorito l’ascesa di Monti attraverso alcuni provvedimenti ministeriali, ma il preteso favoreggiamento non fu provato. Il gerarca, ha scritto Giorgio Meletti nel Dizionario Biografco degli Italiani della Treccani, “si difese dimostrando che la decisione del ministero era stata precedente alla sua nomina a segretario del partito. L’amicizia tra i due, cementata dalla comune adesione al fascismo, fu sincera e solida”. Dopo l’uccisione di Muti, “Monti si fece carico del mantenimento della vedova Fernanda Mazzotti e della figlia Diana con un vitalizio”.
Ines Rossi sostiene che Diana aveva raccolto memorie e documenti su quelle vicende, come un appunto “in cui erano annotati la somma di 60 milioni di lire e il nome di Monti”; ma il destino, o forse un estremo e definitivo riserbo della figlia di Muti, non ne hanno consentito, almeno finora, la divulgazione. Con la morte di Diana, con ogni probabilità, cala per sempre il sipario sulla fine di “Gim dagli occhi verdi”. Non si saprà mai il nome di chi diede l’ordine di ucciderlo, e nemmeno se, in quell’agosto del 43, Muti fosse ormai in rotta con Mussolini oppure se deciso a darsi da fare per riportarlo al potere. Indro Montanelli ha scritto: “Più ci penso, e più mi convinco che Longanesi aveva ragione. Muti non poteva certamente invertire il corso degli eventi, né avrebbe probabilmente mutato le sue opinioni, ormai del tutto negative, su Mussolini. Ma con l’8 settembre, che in quel momento si profilava come inevitabile, non ci sarebbe stato”.