Corriere della Sera, 1 luglio 2018
Correre come terapia
Al fotofinish con il suo fantastico 9”99 sui 100 metri che ha sgretolato il granitico primato di Mennea, arriva da Filippo Tortu come una freccia al cuore la frase che ha rilasciato alla nostra Gaia Piccardi dopo la sua impresa: «Corro per la mia gioia e per la gioia delle persone che mi vogliono bene. Corro con lo spirito di Berruti: divertirmi. E, se posso, vincere».
In un’epoca in cui alla competizione esasperata si aggiunge il nuovo trend del cattivismo, il volto gioioso e la mente leggera di Tortu, ventenne in armonia con genitori, nonne, studi e allenamento, sembrano rimettere le cose al loro posto naturale e possono rappresentare un manifesto di una felicità possibile.
In modo più riflessivo e minimalista, anche lo scrittore Haruki Murakami autore di L’arte di correre (Einaudi, una piccola Bibbia di chi calza le scarpette), parla dell’atto della corsa come di una pratica di benessere che prescinde dai risultati, «qualcosa che non si vede ma si percepisce nel cuore».
Ed è forse la gioia che viveva e trasmetteva uno dei giganti dell’atletica di tutti i tempi, Emil Zatopek, re del mezzofondo del dopoguerra, quattro ori olimpici tra Londra ’48 e Helsinki ’52 dai 5.000 metri alla maratona, chiamato l’«uomo cavallo» o «locomotiva umana», gloria nazionale della Cecoslovacchia. Una gioia che, però, lo tradì quando, ormai ritiratosi, nel ’68, in visita ai Giochi di Città del Messico, criticò apertamente la brutale repressione della Primavera di Praga ad opera dei carri armati sovietici. «Non avranno il coraggio di toccarmi». Purtroppo non fu così: a Zatopek, rientrato in patria, fu tolto tutto: casa, lavoro, onorificenze. Ci ha pensato la Storia a risarcirlo, anche della sua felice innocenza.
Insomma, corsa e felicità formano un binomio più che possibile. Un binomio reale. Lo afferma anche una recentissima indagine condotta dall’Istituto Piepoli per conto della Fidal, la Federazione di atletica leggera. «La corsa è un fenomeno collettivo che nasce anche per emulazione e contagio – dice il direttore Centro-Sud dell’Istituto, Livio Gigliuto —. E al di là del numero dei tesserati e di chi si iscrive alle competizioni, coinvolge ormai un italiano su due». Gigliuto parla del runner come dell’«archetipo dell’innovatore». Non soltanto per la sua attenzione alla tecnologia legata alla misurazione delle prestazioni ma anche per una curiosità e una disponibilità maggiori verso le opportunità della vita. Rispetto ai sedentari, chi corre va di più al cinema, legge con più frequenza, primeggia nel possesso di animali domestici, presta più attenzione alla raccolta differenziata dei rifiuti, fa più volontariato e beneficenza. In definitiva, per il 60% dei runner la corsa ha migliorato le proprie relazioni interpersonali e per il 75% quelle lavorative.
Cinquanta milioni di europei
Al di là dei sondaggi, i dati presentati lo scorso autunno a Francoforte alla prima conferenza europea del Running Business, parlano di un movimento continentale che coinvolge circa 50 milioni di cittadini, i quali spendono annualmente quasi dieci miliardi di euro, 192 pro capite. La corsa è lo sport più popolare nelle Fiandre, al secondo posto in Danimarca e Germania. In Italia giunge al quinto posto dopo il fitness, il calcio, il nuoto e il ciclismo. «In realtà non sappiamo intercettare un fenomeno enorme – spiega Carlo Capalbo della Iaaf —. È ancora troppo complicato da noi, tra certificati, richieste e iscrizioni, partecipare a una competizione. E i runner stranieri vengono raramente alle nostre gare. Così dei benefici economici di questo movimento ci restano le briciole».
Al di là del business, lo studio europeo testimonia che si è passati da una struttura piramidale del correre (una base ricreativa e un vertice competitivo e di campioni) a una struttura «a chiesa» (con un’ampia «navata» che mette insieme i diversi livelli della grande famiglia degli amatori, sempre più pervasi da uno spirito partecipativo) e un «campanile» degli atleti di alto livello. The fun is in the back of the pack, (il divertimento è in fondo al gruppo) è il motto di questi anni in cui si sta completando la seconda ondata del correre, cominciata nei Novanta, con l’ingresso sempre più massiccio in questo scenario delle donne e delle persone anziane.
Ora è in atto la terza ondata, quella delle corse in posti singolari o estremi, dalle vertical run in salita lungo le scale dei grattacieli cittadini, alle prove di resistenza tra i ghiacci o nei deserti. «Mi ha sempre affascinato la ricerca del limite, il desiderio di capire fin dove avrei potuto correre, nel posto più caldo della Terra, in quello più alto o più ostile. Non voglio dimostrare niente a nessuno, è solo il senso vero di tutto il mio andare. E mi produce felicità», dice Giuliano Pugolotti, 58enne pubblicitario di Parma in fuga periodica nella solitudine dei deserti. Finora ne ha attraversati ventidue. Un mosaico di sentimenti che racconta nel libro Correre nel nulla (Giunti). «Sembrerà un paradosso, ma corro per recuperare la lentezza. Viviamo in un mondo tutto impostato sulla velocità, dei trasporti come delle relazioni; nei deserti io trovo la mia libertà. Che sta nel non avere una meta e nel concentrarsi su se stesso. Sei al centro di un nulla e capisci tante cose».
Nel libro Pugolotti racconta naturalmente anche le crisi e i pericoli affrontati e confessa le nostalgie per la lontananza dalla famiglia, «ma nella fatica prodotta da un gesto primordiale dell’uomo, prevalgono in me le sensazioni di avere afferrato molti significati nella vita. E lo capisco dal confronto che posso avere con un avvoltoio che aspetta un mio passo falso o dal dialogo che riesco a costruire osservando lo sguardo lancinante degli uomini tuareg. E poi stabilisco un dialogo con ogni parte del mio corpo. Insomma, la mia è una solitudine affollata».
La scienza viene in aiuto a chi dichiara che correre lo rende felice. Uno studio condotto dall’università di Montreal e pubblicato sulla rivista Cell Metabolism collega gli effetti della corsa alla leptina, l’ormone della sazietà, direttamente connessa alla dopamina, l’ormone del benessere. Insomma, ci sarebbe una singolare correlazione tra il piacere del cibo e quello della corsa e forse questa è impressa nel nostro dna: secondo i ricercatori, l’uomo primitivo che si metteva a correre per procacciarsi il cibo, già pregustava il soddisfacimento del suo bisogno.
Ma c’è di più. E riguarda il cancro. «I nostri studi testimoniano che correre riduce fino al 12% il rischio personale di tumore al seno, del 40% quello all’utero e del 30-40% quello di tumore al colon –— spiega Chiara Segré, responsabile della Supervisione Scientifica della Fondazione Veronesi —. Inoltre nelle persone attive si dimezza il rischio di mortalità da recidiva nel tumore al seno, mentre molte ricerche sono in corso per verificare i benefici sulla prostata. Insomma, basta meno di un’ora di attività aerobica al giorno moderata per avere risultati reali».
Sulla base di queste ricerche che danno per il momento risultati molto incoraggianti nella sfera dei tumori femminili, la Fondazione Veronesi ha sviluppato sin dal 2014 il programma Pink is good, una squadra di atlete oncologiche (che hanno concluso le terapie da almeno sei mesi) le quali sotto controllo dei medici e dei nutrizionisti e seguendo un dettagliato programma con gli allenatori, si preparano alle corse podistiche. Traguardo principale, la regina delle maratone: quella di New York. «La maggior parte di queste donne hanno scoperto la corsa dopo la malattia. Ora sono le testimonial di un riappropriarsi, dopo un periodo faticoso, della propria esistenza, attraverso una vita attiva. L’obiettivo è ambizioso, richiede impegno costante, una pianificazione del futuro che amplia il senso di ottimismo, di positività. Tra il gruppo si creano amicizie fortissime. Una sensazione di benessere che si aggiunge ai benefici della corsa specifici per chi è stato sottoposto a una terapia ormonale; che vanno dall’apparato scheletrico al controllo del normopeso, al sistema immunitario». Quest’anno il programma Pink is good, finanziato interamente dalla Fondazione, oltre che a Milano si sviluppa a Torino, Verona e Roma. Le partecipanti salgono così a cento. Gran finale a ottobre per la tradizionale Pitta Rosso Pink Parade, la manifestazione di raccolta fondi per la lotta ai tumori femminili.
Superare la linea del fuoco
«La felicità vuol dire liberare energie che hai dentro, volare oltre le proprie ragioni. Il momento più difficile è cominciare a correre, mettersi di fronte alle proprie fragilità. Basta all’inizio anche fare il giro del palazzo, ma poi inizi a capire come la fatica riesca a spostare piano piano i tuoi limiti sempre più in là. Bisogna oltrepassare questa linea del fuoco e poi si respira in modo diverso». Lucilla Andreucci, regina italiana delle maratone a cavallo degli anni Novanta e Duemila, è una narratrice della bellezza della corsa che comunica con un bellissimo sorriso e con un impegno costante per l’associazione Libera e come coach degli allenamenti di corsa e della Run4Me Lierac. «Credo che una società in cui si pratichi sport diffuso possa essere una società più educata e rilassata nei rapporti. Per Libera cerco di trasmettere ai ragazzi il senso di una vita pulita, di raggiungere traguardi con l’impegno e senza trucchi. Questa settimana saremo a Librino, uno dei quartieri difficili di Catania». Tutto quello che Lucilla ha fatto nella sua carriera sportiva, l’ha ottenuto grazie all’allenamento e alla fatica. «Non avrei mai pensato di correre i diecimila in 32 minuti o la maratona in meno di due ore e mezzo. Ma ho accettato con serenità anche il fatto di non essere riuscita ad andare alle Olimpiadi, perché sapevo che di più non potevo dare, avevo la coscienza a posto».
Lucilla punta l’accento sul rapporto tra corsa e consapevolezza femminile. «Per le donne che nella loro vita devono rialzarsi spesso da delusioni o traumi nel lavoro, nei rapporti familiari, nell’amore, la corsa è un modo per prendersi cura di se stesse, ribellarsi al quotidiano che non lascia tempo per nient’altro. E soprattutto porta a essere più sicure di sé, delle proprie possibilità. Credetemi, la corsa è un dono prezioso anche nei casi di umiliazioni e violenza domestica: serve ad alzare la voce. E se necessario a chiedere aiuto».