La Lettura, 1 luglio 2018
Le sirene, una malattia oltre il mito
Tutta la potenza e la modernità di un mito. Quello delle giovani donne-pesce che spuntavano dalle acque del mare e che, con il loro dolcissimo canto, incantavano i naviganti facendoli naufragare (in realtà Omero nel XII libro dell’Odissea le descrive semplicemente «sedute sul prato», l’iconografia classica le voleva metà donne e metà uccelli). Un mito tuttavia capace da sempre di conquistare gli artisti con il fascino della bellezza mostruosa. Perché di sirene (anche nelle loro più classiche mutazioni, quelle dei Tritoni, delle Nereidi, quelle celebrate dagli Etruschi, dai Greci, dai Romani) è affollato ancora oggi un immaginifico bestiario che assembla le creature inventate dall’anonimo artigiano che attorno al 1100 scolpisce, in pietra, il capitello della chiesa di San Sigismondo, a Rivolta d’Adda (Cremona), e dall’«armoraro» Filippo Negroli che nel 1543 crea un fantastico elmo in ferro e oro (oggi al Met di New York); dall’Arcimboldo e da Marc Chagall; da Auguste Rodin e da John William Waterhouse.
Paradossalmente, però, la mostra aperta fino al 30 settembre al Museo nazionale etrusco di Villa Giulia a Roma (La sirena: soltanto un mito?) parte dalla classicità, quella di un raro ex voto del IV-III secolo a.C. ritrovato nella necropoli di Veio nell’Ottocento, per avvicinarsi in maniera sorprendente alla contemporaneità, una contemporaneità che coinvolge mito, religione, arte, scienza e medicina: quella, recente, delle sirene secondo Kiki Smith (Sirens), creature demoniache che sul corpo confondono piume e squame; quella della sirena con il volto della top model Kate Moss fusa in oro da Marc Quinn (Siren, 2008); quella della grande scultura blu scuro (Mermaid, 2017) che occupava Punta della Dogana durante la monografica-evento di Damien Hirst a Venezia. Quella di figure indefinite tanto nella loro diversità (una coda da pesce, la pelle verde, le corna da cervo) quanto nel loro sesso (così, nel 2012, Elmgreen & Dragset avrebbero potuto senza tanto scandalo piazzare nella baia di Elsinore Han, versione maschile in alluminio della Sirenetta di Copenaghen).
Intorno a questo singolare intreccio di mitologia e di scienza (che ha visto coinvolti, oltre al Museo di Villa Giulia, altre istituzioni romane come il Dipartimento di medicina molecolare del Museo di storia della medicina, il Polo museale della Sapienza, la Fondazione San Camillo Forlanini) ruotano racconti e immagini che fanno comprendere come nel mondo antico alcune malattie – per esempio il nanismo e l’epilessia – fossero ritenute straordinarie. E come, nel mondo etrusco, numerose manifestazioni del sacro venissero collegate in maniera quasi automatica all’evidenza di anomalie o di «comportamenti divergenti dalla norma» in bambini a loro volta ritenuti prodigiosi. E come, ancora, nella letteratura latina ricorressero di frequente termini quali monstrum o prodigium, paragonabili al greco téras e (allo stesso modo) destinati a esprimere concetti legati al soprannaturale, più o meno funesto. Concetti che potrebbero essere oggi tranquillamente utilizzati per Il mostro della laguna nera dell’horror di Jack Arnold (1954) come per l’uomo anfibio di La forma dell’acqua di Guillermo del Toro (2017, Leone d’Oro a Venezia, quattro Oscar tra cui miglior film e miglior regista).
L’ex-voto che fa da «pretesto» alla mostra evoca, in maniera suggestiva e molto chiara, un corpo affetto da una rarissima malformazione congenita, la sirenomelia, grave patologia che determina lo sviluppo di un singolo arto, simile a una coda di pesce. Dunque, il lato scientifico della diversità. A sottolinearlo arriva dal Museo di anatomia patologica della Sapienza il reperto anatomico di una neonata affetta appunto da sirenomelia. All’elemento prodigioso (e poetico) volutamente si contrappongono lo «sguardo tecnico» degli strumenti chirurgici, di quelli diagnostici e delle cartelle cliniche; e poi quello «sociale». Nella Grecia classica Platone sognava un mondo senza patologie mentre Ippocrate e la sua medicina si basano sull’edificazione di una società risanata dalle malattie. Sarà soltanto la cultura alessandrina che sceglierà di rappresentare con verismo (e talvolta compiacimento) la decadenza fisica e la malattia.
Sono storie e suggestioni di religione, scienza, arte e medicina che fanno comprendere come nel mondo antico, al pari della sirenomelia, fossero ritenute «straordinarie» altre patologie rare. Tra queste, il nanismo acondroplastico che avrebbe colpito la tozza figurina intenta a liberare un picchio nero in una pittura della Tomba François di Vulci. O la progeria, malattia genetica che si manifesta nei bambini con evidenti segni di invecchiamento e con uno sviluppo precoce di malattie tipiche delle persone anziane: quella che avrebbe afflitto Tagete, il fanciullo divino dalle sembianze di vecchio, raffigurato nella Gemma Castellani, agata di età micenea (nella collezione del Museo etrusco di Villa Giulia). La stessa malattia che potrebbe avere manifestato Benjamin Button nel racconto breve di Francis Scott Fitzgerald (1922). Ancora una volta, nel mondo antico come in quello contemporaneo, la storia e, in qualche modo, la celebrazione della diversità. In tutte le forme.