Il Sole 24 Ore, 1 luglio 2018
Indizi preziosi per il Mistero Federer
Lo devo ammettere: quando pubblicava le pagine oggi classiche di Roger Federer come esperienza religiosa, nel 2006, anch’io ho pensato che David Foster Wallace l’avesse sparata grossa. Dodici anni dopo, il meno che si possa dire è che il compianto DFW avesse, fra le sue molte virtù, anche quella divinatoria. Il caso in oggetto, infatti, da un pezzo ha oltrepassato la dimensione del culto pacchiano che si tributa alle icone dell’ entertainment sportivo, per fare accesso al culto tout court: quello che non si può non riservare a quanto eccede la nostra sfera razionale. Lo dice il décor metafisico, accompagnato dalla musica di Interstellar, del promo di Sky nell’attesa ormai dolorosa del possibile nono successo a Wimbledon, che definitivamente proietterebbe l’Icona in una sfera ultraterrena. Lo dice la posa rinascimentale della copertina che lo scorso aprile gli ha dedicato «Time». E lo dice Umberto Marino (l’unico nostro drammaturgo che, con titoli come Italia-Germania 4 a 3, abbia oggi un’autentica popolarità) nel piacevole monologo Roger, appena pubblicato e nei giorni scorsi in scena al Sannazaro per il Napoli Teatro Festival. Il bravo Emilio Solfrizzi vi interpreta un tennista irrimediabilmente umiliato dal confronto con un Avversario che eccede, appunto, la dimensione umana. Paragonando se stesso a Giobbe in lotta con l’angelo, il Numero Due (primo degli umani, cioè) capisce alla fine che «lui, quell’altro, è Dio. O Roger. Fa lo stesso». Un Deus absconditus che si sottrae ai suoi fedeli come il Godot di Beckett (non mancano le banane, a evocare più Krapp di Michael Chang...).
Come in ogni Culto, c’è in quello per Roger Federer un quanto di Mistero. A proiettarlo in una dimensione metafisica non sono i suoi record, come quello – in termini sportivi davvero formidabile – raggiunto lo scorso febbraio a Rotterdam, quando a 36 anni ha riconquistato il numero Uno della classifica Atp; e neppure, forse, la monumentalità estetica del suo gioco (quella che non solo per J.M. Coetzee, infatti, è un’«opera d’arte»). Bensì il suo incarnare un Archetipo. Già due anni prima dell’exploit di DFW, al secondo degli otto Wimbledon vinti, un avversario brocco ma intelligente, Andy Roddick, aveva capito che c’era «ormai un’aura attorno a lui»; proprio in quel 2004, a 23 anni, gli veniva dedicata la prima biografia.
L’ultima e più completa è quella del bravissimo cronista della «Stampa» e commentatore di Eurosport, Stefano Semeraro. Conosco l’autore da vent’anni, quando era fra i poeti che animavano la bella rivista bolognese «Versodove». Con polemica implicita (ma esplicita nel prefatore, il grande Gianni Clerici) nei confronti delle exphrasis di Foster Wallace, Semeraro prende però il partito di “tradurre in prosa” Federer. Il suo libro dunque ne segue analiticamente la carriera, si può dire, settimana per settimana (riservando semmai i propri estri pindarici ai Rivali, come il quasi altrettanto ieratico Juan Martin del Potro). Ma è proprio in virtù di questa epoché che consegna, a noi testardi evemeristi, indizi preziosi per sondare il Mistero Federer.
Descrive benissimo per esempio, Semeraro, la Dialettica del Controllo (per citare un notevole saggio recente del filosofo Stefano Velotti) che ha fatto, del talentuoso ma isterico spaccaracchette di Basilea, la Statua di Se Stesso che a Marino evoca un’insondabilità da Gioconda: la madre Lynette che gli ripete come un mantra «controllati Roger», il padre Robert che un giorno, di ritorno da un torneo giovanile, ferma l’auto, trascina il figlio fuori dall’abitacolo, sfebbra quella testa calda strofinandola sulla neve al ciglio della strada. L’Archetipo Roger è l’Apollineo che serba la memoria del Dionisiaco vinto in se stesso. Lo diceva uno che se ne intendeva, Paul Valéry: ogni Classico è il superamento di un Romantico. Semeraro parla di «maree interiori sotto l’eleganza dei gesti»: così ripetendo la definizione che del classico, proprio, dava Winckelmann. Del classicismo ha anche la normatività: una volta Rod Laver ha detto non la banalità che nessuno ha mai giocato così bene, bensì una cosa più precisa, tanto antipatica quanto inoppugnabile: «Federer gioca a tennis nel modo in cui il tennis deve essere giocato».
Sempre più, man mano che passa il tempo – la dimensione che nega, cioè –, si manifesta l’inattualità, il sogno di eternità celebrato in Federer da un altro filosofo, André Scala. Già nel 2009 ammetteva di «giocare contro le generazioni future»: inevitabile dunque che si sottragga, Federer, all’umana contingenza impersonata dal numero Due di Umberto Marino. Pensare al momento razionalmente prossimo del suo ritiro, pensarlo davvero, è impossibile come pensare al momento della nostra morte. Guardare Federer giocare a tennis, oggi, è struggente perché, come scrive Semeraro, ci consegna l’illusione «che la vita possa essere un eterno pomeriggio soleggiato».