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 2018  luglio 01 Domenica calendario

Irriducibile Sharapova

Diciamolo subito: non ne esce simpatica e ammaliante. Competitiva fino all’ossessione (come praticamente tutti i campioni dell’era contemporanea del tennis, quasi costruiti a tavolino), con il sospetto che abbia confezionato quest’autobiografia all’indomani della sospensione dalle gare per via del meldonium (una sostanza che aumenta la disponibilità di ossigeno, entrata tra le sostanze dopanti solo di recente e che, spiega lei, assumeva da anni per altri problemi): un modo per riconquistare la scena e ripartire con il vento in poppa. Soprattutto, un libro con dichiarazioni crude, a volte urticanti, su Serena Williams – in luna di miele con i fan, tornata in campo dopo aver messo al mondo Alexis Olympia – e sul motivo per cui avrebbe perso con lei 19 volte su 21, come vedremo. 
Eppure... Inarrestabile, autobiografia di Maria Sharapova, al di là di questo impatto immediato e senza la pretesa di raggiungere epiche vette narrative (neanche quelle di Open, per capirci, in cui le vicende di Andre Agassi erano ben sostenute dal Pulitzer John Joseph Moehringer), ha degli elementi di interesse. Porta il lettore dentro la storia di una bambina nata a Niagan, in Siberia, nel 1987, sbarcata in America non banalmente alla ricerca di un destino migliore ma con l’idea di costruirsi esattamente il proprio, che aveva ben chiaro. Cioè diventare la tennista più forte del mondo.
Dietro c’è la figura centrale della sua esistenza, quella del padre Jurij, che ne governerà le scelte e rafforzerà il carattere, stabilendo spostamenti, individuando maestri e preparatori atletici, girando video degli allenamenti che poi studiano insieme. Del resto è lui il suo primo “palleggiatore” (come si dice in gergo tennistico), a Soci, dove si erano trasferiti da Niagan. Ed è lui che raccoglie il suggerimento nientepocodimeno che di Martina Navratilova, quando la leggenda cecoslovacca vede giocare quello scriccioletto biondo con una racchetta troppo grande e riconosce subito una particolare vocazione, incoraggiando caldamente il padre a portarla in America. Jurij non ci pensa due volte. Vorrà dire però separare la bambina dalla mamma, disgregare la famiglia, perché i visti a disposizione – e non è scontato ottenerli, nella crisi dell’Unione Sovietica appena crollata – sono solo due. L’arrivo in Florida significa sacrifici e ristrettezze, dormire assieme su un divano sfondato con la padrona di casa che minaccia di buttarli fuori se non pagano l’affitto (con Jurij che nel frattempo si adatta a lavori transitori), ma Masha – sceglierà lei di chiamarsi Maria perché in America non sanno pronunciarlo – intanto cresce, alimenta la mentalità vincente, diventa sempre più forte grazie all’accademia di Nick Bollettieri, di Sekou, poi a Los Angeles da Robert Lansdorp (è lì che migliora i colpi piatti e violenti: il top spin è vietato). Una quotidianità scandita dalla sveglia all’alba, dal rettangolo di gioco, gli esercizi, i compiti la sera, una telefonata alla settimana alla mamma (non di più: è costoso) che riuscirà a raggiungerli dopo due anni.
Forse basta già solo questo a spiegare perché Sharapova, al netto dei suoi urli e della sua prestanza fisica, sia diventata una delle dieci tenniste della storia ad avere vinto tutti e quattro i tornei del Grande Slam (l’unica russa). Una determinazione, un’attitudine al sacrificio, una predisposizione a cogliere gli obiettivi messi in fila uno dopo l’altro senza cedere alle difficoltà, non potevano che condurre a questo. 
Il sogno di vincere a Wimbledon si realizza prestissimo, nel 2004, il suo anno d’oro: a 17 anni batte Serena Williams, già affermata e venerata. Il padre festeggia da vero russo, si ubriaca per tutta la notte e alle cinque aspetta l’apertura dell’edicola per comprare i giornali che l’edicolante, emozionato, gli regala quando si sente dire «sono il padre di Maria Sharapova».
Proprio il successo contro la Williams è uno dei momenti più controversi del libro. L’autrice racconta di aver udito dopo la partita il pianto strozzato dell’avversaria negli spogliatoi: «Negli ultimi dieci anni (Serena, ndr) mi ha dominato sconfiggendomi 19 volte su 21. Spesso questa mia difficoltà viene spiegata citando la sua potenza, il suo servizio, la sua sicurezza, e senza dubbio c’è del vero, ma il motivo reale va trovato in quello spogliatoio, dove io mi cambiavo e lei piangeva. Penso che Serena mi odiasse perché ero la ragazzina esile che l’aveva sconfitta contro ogni pronostico. Ma soprattutto mi odiava perché l’avevo sentita piangere. Non mi ha mai perdonata per questo». Accenti forse eccessivi, come anche quando altrove sottolinea che «in partita Serena Williams ha un’espressione quasi arrogante, ti guarda dall’alto in basso con una sorta di distacco». 
In ogni caso da allora la russa inanella una serie impressionanti di successi, diventando la numero uno del mondo (nel 2005), esattamente come si era prefissa, partecipando alle Olimpiadi (Londra 2012) dove la Federazione le chiede di portare la bandiera, un’emozione indescrivibile. Non la piegano neanche gli infortuni, dai quali si rialza. Fino a quando un giorno del 2016, nel corso dell’Australian Open, risulta positiva ai controlli antidoping e comincia un calvario al quale non era preparata. I fan le voltano le spalle, deve uscire dal circuito inizialmente per due anni, poi per 15 mesi. Quando rientra, ottiene delle wildcard per giocare nelle maggiori competizioni e pian piano risale la china della classifica. Ora è al 24° posto, come la testa di serie che le hanno assegnato a Wimbledon: Serena è testa di serie numero 25. La sfida continua.