Il Sole 24 Ore, 1 luglio 2018
Elagabalo, imperatore di Roma e signore di tutti gli eccessi
Duemila anni fa un ragazzo arabo di quattordici anni divenne imperatore di Roma. Aveva un nome non memorabile: Marco Aurelio Antonino, ed è passato alla storia con il suo soprannome: Elagabalo (El-Gabal significa Dio della Montagna, una divinità semitica del Sole alla quale era particolarmente devoto). La colpa era stata della mamma e della nonna: due volitive e nobili siriane, imparentate con la dinastia dei Severi, che manu militari erano riuscite a tramutare il fanciullo in imperatore e a comandare per interposta persona (avevano messo in giro la voce che era figlio illegittimo di Caracalla per dargli almeno un’aura di legittimità dinastica). Un ritratto ai Musei Capitolini di Roma mostra la sua faccia: un adolescente con gli occhioni e l’espressione un po’ afflitta, i capelli mossi, le basette e la peluria che spunta, gote piene e labbra abbondanti (era negli anni dell’innocentissima aetas secondo Plinio il Vecchio o dell’imbecilla aetas secondo Sant’Agostino).
Fu il venticinquesimo cesare (per 1395 giorni, tra il 16 maggio del 218 e l’11 marzo del 222 d.C.) e fu un campione del gender. Non gli piacevano gli abiti che portavano i greci e i romani e non gli piacevano neanche gli abiti da uomo. Quando non si travestiva da Venere, si drappeggiava di seta scarlatta trapuntata d’oro, carico di collane e bracciali, ispirandosi alla moda dei preti fenici e agli sfarzosi persiani (per questo era sbeffeggiato come l’”Assiro” o il “Sardanapalo”). Si sposò con cinque aristocratiche romane per eugenetica (desiderava «bambini simili a dei» ma non si riprodusse) e impalmò due maschi orientali per passione: uno schiavo di cui si considerava «moglie e regina», e poi un atleta superdotato. Come una Messalina rediviva si prostituiva al bordello, truccato, depilato e con la parrucca. Si era fatto circoncidere per motivi religiosi ma avrebbe preferito castrarsi ed era disposto a dare la metà dell’impero a chi trovasse il modo di trapiantargli i genitali femminili.
Fu attento alla rappresentanza di genere: la madre e la nonna partecipavano alle adunanze del senato negli scranni dei consoli (un tabù punito con la morte che solo Agrippina madre di Nerone aveva violato, nascondendosi dietro una tenda) e istituì anche un senato di donne al posto di un’antica congrega di virtuose matrone. Era un protettore di prostitute: riscattava la schiave per liberarle, costruiva per loro case pubbliche, le riempiva di denaro e di provviste di grano. I militari e i senatori di Roma erano abituati da secoli agli eccessi assortiti dei nobili e agli imperatori più impudenti (quasi mai potere e ricchezza erano esibiti con l’ascesi). Nelle ricezioni, Elagabalo era anche più stravagante di Nerone: piogge di petali, piscine profumate, cuscini d’oro, pentole d’argento, vini con aromi esotici e pietanze che neanche Trimalcione aveva immaginato: talloni di cammelli, lingue di usignoli, cervelli di fenicotteri e barbe di triglia (la carne suina non era permessa dalla sua religione).
Ai custodi della res publica quell’imperatore andava poco a genio. I soldati erano scandalizzati che «un principe accogliesse la libidine in tutti i suoi buchi». Ai senatori non piaceva di essere considerati «servi in toga» ed essere esclusi dalle cariche più importanti, che assegnava – secondo loro – ai dissoluti compagni. Ma soprattutto non sopportavano il culto di un solo dio e gli esotici rituali che – per forza o per amore – cercava di trapiantare a Roma. In una terrazza del Palatino davanti al Colosseo fece costruire l’Elagabalium, un tempio dove contenere la religione e i simboli ancestrali di Roma insieme a quella di Giudei e Cristiani ma decise che non c’era altro dio all’infuori di Elagabalo. Il nome fu latinizzato in Sol Invictus, adorato sotto forma di un bolide astrale appositamente traslocato dalla sua città natale: Emesa in Siria, moderna Homs. Nessuno capiva quella nuova spiritualità, il monoteismo e le stranezze delle liturgie, ed era bizzarro vedere l’imperatore e sommo sacerdote che danzava a suon di musica intorno all’altare con «gemiti e contorsioni», sacrificando tori e pecore e ogni tanto qualche bambino.
Quando è troppo è troppo e le guardie militari cominciarono a dare segni di insofferenza. La nonna non si dette per vinta, aveva anche un’altra figliola e un altro nipote teen-ager da manovrare: il dimesso e rispettoso Severo detto Alessandro (Magno); previde il peggio e fece affiliare Severo Alessandro a Elagabalo (16 anni il padre e poco meno il figlio-cugino ma tra i due non correva buon sangue). L’adozione non bastò a calmare gli animi ed Elagabalo fece una brutta fine. I pretoriani si ammutinarono, decisero di dargli la caccia e di farla finita. L’imperatore si nascose in un orinatoio, fu scovato, decapitato e trascinato in giro per il Circo Massimo; la fogna dove il cadavere era stato buttato era stroppo stretta e fu scaraventato nel Tevere. La mamma ebbe lo stesso destino e i suoi amici, per contrappasso, furono infilzati con il gladio dagli orifizi. La sua memoria fu maledetta per sempre e l’asteroide venerato come Sol Invictus Elagabalus fu rispedito in Siria.
Fino a una paio di secoli fa Elagabalo è stato sfortunato. Le oscene e giudiziose biografie antiche fecero di lui la più lasciva fiamma di Roma e il rifiuto della storia. Gli scrittori posteriori presero tutto per buono, aumentando il carico: «stupri, violenze, ogni turpitudine» (il maldisposto Paolo Orosio, cristiano, V secolo), «il più sozzo... degli uomini» (Boccaccio, XIV secolo), «aveva preferito la conocchia allo scettro» (Edward Gibbon, XVIII secolo). Dall’Ottocento in poi Elagabalo è stato però riabilitato come eroe decadente, anarchico e dannato. È stato messo in musica, rappresentato a teatro, nei balletti e nei dipinti. Alcuni storici hanno letto tra le righe dei loro colleghi dell’antichità e hanno spiegato il suoi eccessi come una politica anti-élite, e i suoi furori orgiastici come segni di una particolare devozione religiosa. Gli scrittori sono stati i più entusiastici e qualcuno avrebbe anche potuto ripetere: Elagabalo c’est moi.