Il Sole 24 Ore, 1 luglio 2018
«Non mescolarsi troppo col potere, prima “diversity” da avere in Italia». Una chiacchierata con il banchiere Marco Mazzucchelli
«Gli anni Novanta sono lontani. Sono stati eccitanti e pieni di errori. Potevi essere svegliato da una telefonata per quotare un prezzo a qualunque ora della notte. Chi, allora, ha lavorato a Londra e a New York ha commesso molti peccati. Ma ha sviluppato anche non poche virtù. Ogni minuto costruiva scenari nuovi. Si prendeva dei rischi. Seguiva l’istinto». Marco Mazzucchelli, 55 anni, è uno dei banchieri italiani che ha operato di più all’estero.
In Italia è stato al Monte dei Paschi di Siena e al Sanpaolo Imi. Sei anni nel nostro Paese su oltre trent’anni di attività. Non è un ingenuo, ma non è un animale politico: «Ho una forte passione civile, ma non ho mai cercato dialoghi con i partiti e con la massoneria. Non sono mai andato alle cene a Roma. Non è un merito. Semplicemente non mi è mai venuto di farlo. E, alla fine, ha sempre prevalso la mia dimensione eminentemente tecnica». E, questo, ha un significato in un Paese bancocentrico in cui il potere si è distillato da sempre fra la finanza e le istituzioni, le banche e i salotti. Prima di Siena ha lavorato in Citibank e in Morgan Stanley.
Dopo Torino è stato in Credit Suisse First Boston e, poi, in Royal Bank of Scotland e in Julius Baer. Adesso è, fra le altre cose, membro del consiglio di amministrazione della Kbl, la banca europea della famiglia Al Thani del Qatar. Sta valutando piccoli investimenti personali in nuove aziende di servizi finanziari digitali. Allo stesso tempo, coltiva interessi culturali, artistici e sociali. Per esempio la diversity, ossia la capacità di miscelare identità personali e culturali differenti nelle aziende e nelle loro leadership. Va volentieri nelle scuole a parlare. In questo momento osserva dall’esterno la “macchina mondiale”, che non è più dal tempo in cui scriveva Paolo Volponi la fabbrica ma che è, da quarant’anni, la finanza. Dunque, Mazzucchelli può rompere il silenzio – sui clienti, sul mondo e su se stesso – che caratterizza la funzione del banchiere.
Ci vediamo per questo A Tavola Con nel suo appartamento in una delle parti più classicamente agiate di Milano. In quella zona Magenta dove – in una trasmutazione proustiana – perfino i proprietari della tintoria dall’altra parte della strada hanno le sembianze magre e la pelle diafana dei professionisti e degli industriali, dei commercianti e dei professori universitari di cui smacchiano le camicie e stirano i pantaloni. Una Milano che è l’unica Global City italiana, con quella sua miscela di establishment e di homines novi, di vecchie funzioni e di nuove intuizioni: «Ho vissuto tanti anni a Londra e a Zurigo. Ho casa a Berlino. Ma devo dire che oggi Milano è la città più cool d’Europa. Sono orgoglioso di essere milanese». Prima di metterci a tavola, lui riflette su che cosa è diventato il suo mestiere, rimodellato dopo il 2008 dalle politiche monetarie ultraespansive e pervasivamente onnipresenti. «Negli anni Novanta l’ausilio della tecnologia era minimo. Dopo, tutto è cambiato. Gli algoritmi hanno standardizzato molte decisioni riducendo la componente umana. E il quantitative easing e il “whatever it takes” della Banca Centrale Europea hanno modificato i meccanismi di funzionamento strutturale dei mercati. Oggi è difficile che qualcuno assuma dei rischi o quoti dei prezzi».
Mazzucchelli ha una camicia bianca con le iniziali MM, bretelle inglesi comprate da Bardelli, un abito della sartoria napoletana Cesare Attolini, una cravatta blu di Cappelli, scarpe inglesi. Ci sediamo a tavola, la tovaglia perfettamente bianca, le fette di pane bianco, il pane azzimo e i grissini, la signora di servizio che parla inglese con il padrone di casa, l’acqua gassata – per me – e il Pouilly Fumé, il vino della Loira, per lui.
Mazzucchelli ha nei comportamenti – anche nello stare a tavola – il segno del rispetto delle forme di una borghesia milanese per la quale non era tutto – ma era molto – educare i figli come Dio comanda, mandarli prima al Leone XIII e, poi, in Bocconi – come è capitato a lui -, al Politecnico o alla facoltà di legge della Statale o della Cattolica. Il padre Angelo era un imprenditore chimico che, negli anni del Boom, fece fortuna aggiungendo le vitamine nei mangimi per gli animali, vendendo l’azienda alla Roche e rimanendo come dirigente. Oltre al percorso borghese, ha lasciato al figlio anche la passione per l’Inter: «Da lui ho ereditato l’amore per il club e un po’ di azioni. Oltre ad andare allo stadio, partecipavo alla assemblee, anche se con gli aumenti di capitale dell’epoca di Massimo Moratti il mio pacchetto si è assottigliato fino quasi ad annullarsi».
La signora di servizio porta in tavola un pranzo leggerissimo. Bresaola da condire con olio, limone e pepe e insalata con i pomodori. Nel 1989, Mazzucchelli è a Londra in Morgan Stanley, dove diventa responsabile del settore obbligazionario per l’Europa coordinando il lavoro di una cinquantina di trader e gestendo posizioni per una decina di miliardi di dollari. Nel 1992 Mario Draghi, direttore generale del ministero del Tesoro, gli chiede di entrare nel Consiglio degli esperti – gli altri sono Luigi Spaventa, Francesco Giavazzi e Alberto Giovannini – che sovraintende alle privatizzazioni e alla gestione del debito pubblico. Mazzucchelli preferisce rimanere in Morgan Stanley. Nel 1997 Luigi Spaventa e Divo Gronchi, rispettivamente presidente e provveditore di Mps, gli propongono di fare il Chief Financial Officer di quella che, allora, è la terza banca del Paese, in procinto di quotarsi. Nel 2001 il presidente del Sanpaolo Imi, Rainer Masera, lo chiama a Torino affidandogli la costruzione del polo del risparmio e delle assicurazioni. Nel 2004, Masera lascia e Mazzucchelli va a fare il responsabile dell’investment banking in Europa di Credit Suisse First Boston. «Il giorno del fallimento di Lehman Brothers, il 15 settembre 2008, ero in Sud Africa a negoziare una acquisizione», ricorda. Chi opera nelle banche internazionali – a qualunque livello – ha in testa esattamente dove fosse in quel momento. Il fallimento di Lehman è come per gli italiani il sequestro di Aldo Moro o per gli americani l’assassinio di JFK. Ricostruisce Mazzucchelli: «Evitammo gli aiuti di Stato grazie agli aumenti di capitale sottoscritti dalla famiglia Al Thani del Qatar e dalla famiglia Olayan dell’Arabia Saudita».
Nel 2009, diventa deputy ceo della Royal Bank of Scotland nazionalizzata dal governo britannico di Gordon Brown, un moloch con un bilancio di oltre 2 trilioni di sterline. È il periodo in cui nasce il nuovo mondo per come lo conosciamo oggi: la finanza distaccata dalla realtà e dal reale viene definitivamente identificata da molti come la causa di ogni male, il ceto medio su cui si regge la società occidentale avverte i primi segnali di impoverimento, gli interessi nazionali assumono forme nuove e il rancore diventa un elemento della politica e il cemento avvelenato con cui è costruito l’edificio sociale. «Non a caso – dice Mazzucchelli – tutti noi che facciamo parte del così detto popolo di Davos non abbiamo capito fenomeni come l’imporsi della Brexit e l’ascesa di Donald Trump».
Mazzucchelli non ha nulla di penitenziale. Anche se la sua riflessione sul ruolo del banchiere non può non partire da lì, da quegli anni, che sono stati duri nella dimensione pubblica come nella dimensione privata. Dimensioni che, a un certo punto, si intrecciano minando le certezze dietro cui ognuno di noi nasconde le sue fragilità: «Ho guadagnato molti soldi, ma molti li ho anche lasciati sul tavolo. Nel 2011, però, è cambiato qualcosa. Ho avuto un incidente in montagna che ha messo a rischio la mia salute. Il nuovo governo britannico ha deciso di chiudere il global banking di Royal Bank of Scotland, di cui ero il responsabile, e dunque ho perso il lavoro. Mi sono separato da mia moglie Lucia, la mia fidanzata fin dalla adolescenza, con cui ho avuto la mia unica figlia, Coraly. In pochi mesi ho perso tutto».
Nel 2012, diventa visiting fellow al Mit di Boston e membro del gruppo di esperti sulle riforme strutturali bancarie della Commissione europea (il Liikanen Group, in cui conosce Mario Nava, oggi presidente della Consob). Nel 2013 cura per Julius Baer l’acquisizione da Bank of America delle attività fuori dagli Stati Uniti di Merrill Lynch. Poi ne diventa managing director e segue, in Italia, la progressiva acquisizione della Kairos di Paolo Basilico. Dice dopo un pasto leggerissimo bevendo il caffè e offrendomi un gianduiotto torinese, anche se concorda che è buono ma non è del livello di quelli di Gobino: «È strano. Ho sempre avuto distacco dalla politica e, allo stesso tempo, passione civile. Mi rendo conto che, oggi, la figura del banchiere va rimodulata. La banca al centro delle cose, come soggetto fermo in attesa degli altri, non funziona più. Probabilmente deve tornare a muoversi verso gli altri. E, allo stesso tempo, deve tornare a produrre intelligenza e sapere. La grande tradizione degli uffici studi, che formavano il personale e che elaboravano pensiero per la comunità e per lo Stato, andrebbe fatta rivivere».
Nella complessità delle cose, in cui ognuno prova a ricomporre una realtà oggi frantumata, Mazzucchelli è uno degli esponenti dell’establishment italiano più esposto sui temi della diversity e dell’inclusione: «Anche se – sorride – alla fine mi rendo conto di essere, in Italia, prodotto di un mainstream che più mainstream non si può: bianco, maschio, cattolico, cinquantenne, eterosessuale, bocconiano. Per fortuna che sono interista. Se fossi stato anche juventino sarebbe stato troppo...».