Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  luglio 01 Domenica calendario

La solitudine è un’arte: parola di numeri primi. Colloquio tra Paolo Giordano e Silvio Orlando

Che specialità di solitudine è quella di un tempo in cui siamo tutti connessi eppure intercambiabili, all’inizio di un’era fondata su una rottura acceleratissima come quella innescata dalle reti globali? Per Paolo Giordano e Silvio Orlando la solitudine di oggi è quella di sempre, figlia dell’eterna lotta tra la fatica e il bisogno del contatto con l’altro, che però qui e adesso si va facendo inquietante fenomeno di massa, come una marea montante che non trova più ostacoli.

Far incontrare lo scrittore di La solitudine dei numeri primi e l’attore di Nanni Moretti e Paolo Sorrentino significa avvicinare due generazioni lontane un quarto di secolo su un tema, appunto la solitudine, che entrambi sentono decisivo, anzi dirimente per capire come cambia il nostro modo di vivere. Non a caso il mondo letterario di Giordano è popolato da personaggi come gli Alice e i Mattia del folgorante esordio, imprigionati al loro destino di isolamento, o come i Bern e le Teresa dell’ultimo Divorare il cielo, chiusi nella trappola esistenziale delle cose non dette e di un sogno perduto; e non a caso nello spazio scenico di Orlando ci si prepara al debutto con un testo in bilico tra Eduardo De Filippo e Samuel Beckett e un tra parentesi che suona come un avvertimento: Si nota all’imbrunire ( solitudine da paese spopolato), storia di un uomo solo e della sua famiglia disfunzionale, quasi un vaudeville di reciproche estraneità in scena prima a Napoli e poi al Festival di Spoleto.
Non serve altro per chiedervi se aveva ragione Cesare Pavese a dire che il problema della vita è uno e solo uno: rompere la propria solitudine.
PAOLO GIORDANO: «I personaggi di Pavese sono sempre di un passo svantaggiati rispetto al centro dell’azione. Come lui credo che il problema della vita sia tutto qui. Desiderare e riuscire ad essere al centro della vita. Questo tra l’altro mi pare il senso dello spettacolo di Silvio, dove il protagonista questo desiderio non lo prova più e con ciò smette anche di voler essere qualcosa per gli altri, diventa superfluo. Ecco, credo che il sentirsi irrilevanti sia la cosa peggiore».
SILVIO ORLANDO: «Sì, lo condivido. Un cervello da solo si danneggia. Ci definiamo attraverso lo sguardo degli altri. L’aspetto interessante e spaventoso è che questa sensazione di solitudine diffusa un tempo era roba da intellettuali, Michelangelo Antonioni sull’incomunicabilità ci faceva i film e Totò lo prendeva per il culo, e invece adesso sta diventando un fenomeno di massa. Quando abbiamo pensato a questo spettacolo e ci siamo chiesti a chi potesse interessare, abbiamo intuito che riguardava tutti, come quando parliamo di sesso o di calcio».
Ci torneremo. Ora ditemi il vostro primo ricordo della solitudine.
GIORDANO: « Ero bambino, passavamo le estati in montagna e io non avevo molto da fare. Ricordo allora un momento preciso, scandito dal tramonto e dalla forza di un paesaggio immenso e bellissimo. Il mio primo ricordo della solitudine è lì, in quel perdersi struggente e per certi versi inquietante».
ORLANDO: «Ero anche io molto piccolo e ricordo la penombra, le persiane abbassate per il caldo, mia madre malata nella camera, in una casa sospesa tra l’ansia e l’indolenza di quelle lunghissime estati. Quella è la mia prima immagine plastica della solitudine, contro la quale ho combattuto a lungo».
Come si chiama la solitudine a Torino? E come si chiama a Napoli?
GIORDANO: «Torino è città di immigrazione, dove molti si sentono sradicati. Vivevo nella prima cintura fuori dal centro, luoghi rassicuranti, ma senza significati stratificati nel tempo. I miei amici erano per la maggior parte pugliesi».
ORLANDO: « Forse si chiamano allo stesso modo, ormai. Negli anni Settanta è successo qualcosa che ha unificato tutto il Paese, la nascita di quartieri funzionali ma desolanti, sempre gli stessi ovunque, che sono diventati non-luoghi».
Vi definite entrambi persone più o meno solitarie. Qual è il confine tra lo stare soli come opportunità e l’isolamento che ci allontana dalla vita?
GIORDANO: « Faccio lo scrittore, la solitudine è dal mio punto di vista un habitat quasi necessario. Ma attenzione: stare soli è occasione solo se — paradossalmente — ciò riesce ad essere condiviso. Per me il punto di rottura della solitudine è il rapporto con mia moglie. Serve almeno una persona per non finire nella grotta in cui finisce il mio Bern in Divorare il cielo ».
ORLANDO: «Per me oggi quel confine è aver rinunciato al cinema per dedicarmi al teatro. Poter selezionare le cose, fuori dal casino e dall’ansia. E in fondo è anche il modo di esprimere le mie ambizioni, il mio narcisismo».
Si diceva di una marea che cresce, in un sistema però iperconnesso nel quale tutti parliamo di tutto con tutti. Assai nervosetti, tra l’altro.
GIORDANO: « Per me tra solitudine e rabbia sociale non c’è più nemmeno un rapporto di causa-effetto. Sono compenetrate. Sentirsi una monade sociale mette assieme la frustrazione per la propria irrilevanza e il risentimento verso l’altro. Un tempo il nucleo famiglia, peraltro anch’esso laboratorio di solitudine,
Lo spettacolo
Si nota all’imbrunire ( solitudine da paese spopolato) di Lucia Calamaro è prodotto da Silvio Orlando, Maria Laura Rondanini, Teatro Stabile dell’Umbria e Napoli Teatro Festival, dove debutterà il 30 giugno al San Ferdinando. Sarà poi ospite del Festival di Spoleto il 12 e 13 luglio, al teatro Caio Melisso «Negli anni Settanta avevamo uno slogan,
il personale è politico.
Volevamo che ognuno, con la sua storia e le sue azioni, fosse soggetto sociale. Tutto questo si è schiantato al suolo. Internet è sembrato per un attimo ciò che poteva far esplodere il sistema, ma in mezz’ora il sistema si è riorganizzato e lo ha reso strumento per ottenere quello che vuole da noi. Il nostro essere consumatori, sostanzialmente. E il più possibile soli».
GIORDANO: « Invece una rete sociale viva è fondamentale, perché non ci rendiamo conto di quanto sia facile nella vita scivolare dentro la solitudine. Bastano pochi anni, alcuni fallimenti, un lasciarsi andare troppo a lungo. Succede al protagonista dello spettacolo di Silvio e succede alla mia Teresa nel romanzo».
La società digitale è habitat elettivo per assecondare tutto questo.
GIORDANO: « Negli anni Novanta guardavo Strange Days, un film che presagiva un mondo dove le persone rivivevano ossessivamente i propri desideri, con le mascherine per la realtà virtuale immersiva. Atomizzazione sociale, in sostanza. Ecco, mi pare che sia questo spirito, più che quello della condivisione, a orientare il progresso tecnologico».
ORLANDO: «Credo che le opportunità che Internet offriva siano state completamente disattese. Da ogni punto di vista, economico, sociale, politico. Poi certo, non è stato mica Steve Jobs a inventare la solitudine. Il problema di questo strano tempo che viviamo è il venir meno degli anticorpi».
I social sono la nuova socialità o una metafora della socialità?
GIORDANO: « Secondo me sì, alla fine i social network stanno diventando una socialità che sostituisce i riti collettivi del modello precedente. Bisogna vedere quanto appagante per la reale esigenza di contatto umano...».
ORLANDO: «Non so, ma credo che in questi luoghi siamo sempre meno in grado di entrare in una relazione autentica con gli altri. Finisci per parlare con te stesso o con quelli come te. Che poi non esistono, quelli come te ».
Così il senso di solitudine fermenta e produce società chiuse.
GIORDANO: « Più la gente si sente sola e più è manipolabile. Divide et impera,
mi pare che valga oggi come non mai».
ORLANDO: «Sì. La gente è sola e ha paura, e più ha paura più vede nemici».
Le uniche relazioni certe, nell’anima dei personaggi di Giordano, passano per il corpo. E nello spettacolo di Silvio le persone sono assediate dalla mancanza di abbracci. Ritrovare il corpo può essere una risposta?
GIORDANO: «Per me i corpi sono sempre stati un tema complesso, un terreno di sfida e di scontro con sé stessi. Per questo ne parlo tanto nei libri. Poi certo, questa “battaglia” col corpo nasce anche dalla difficoltà di investire la tua battaglia fuori di te. È così che si ripiega su sé stessi, così Teresa entra in guerra con la sua infertilità, così il numero primo Mattia si taglia le braccia».

« Il corpo è diventato una macchina che deve garantire efficienza. Come un’automobile fino ai primi centomila chilometri. E poi? In questo modo finisci per chiedere tutto a te stesso, fino a sfruttarti. Cos’è questa se non una nuova forma di solitudine?».
Le famiglie di cui parlate sono luoghi di affollato silenzio, un gioco di relazioni a mosca cieca con i cuori bendati.
GIORDANO: «Penso anche alla scuola. Sono sempre colpito dalla frattura tra genitori e figli quando ci si misura col “mondo esterno” della scuola. È lì il primo, fortissimo impatto con la violenza di un sistema costruito sull’obbligo di essere adeguati ad ogni costo. Qui c’è la radice di una doppia solitudine, quella dei figli e quella dei genitori».
ORLANDO:
«Conosco bene la perniciosa triangolazione tra professori, ragazzi e famiglie. Lì c’è stata una rottura fortissima: quando ho recitato in
La Scuola
ho incontrato giovani, genitori, docenti e ho toccato con mano quanto questo conflitto tremendo in atto tra chi insegna e le famiglie conduca ad un’altra forma di incomunicabilità, anche affettiva».
Una solitudine tutta nuova, allora, cresciuta nel tempo sulla faglia tra le generazioni?
GIORDANO: «Dovremmo riflettere anche sulla mancata trasmissione della memoria, che è un assist tremendo alla solitudine. Chi non è riuscito a tramandarla resta solo con la sua storia, chi quella memoria non l’ha ricevuta finisce per percepirsi uno nato dal nulla che
va verso il nulla».
« Il testo che mettiamo in scena va anche in questa direzione. La solitudine “familiare” è vecchia come la famiglia e come l’uomo, ma oggi assistiamo a una rottura più profonda, che poi si dipana e trasmette all’intera società».
“ Marca Budavari, marca Budavari!”. Quel grido del coach in “ Palombella Rossa” era assieme un urlo disperante di solitudine e la resistenza ad essa.
ORLANDO:
«È la differenza che passa tra una brutta parola italiana,
sfigato, e una bellissima parola inglese, loser: il primo è chi nasce sconfitto, l’altro uno che combatte, si impasta con la vita sua e degli altri, e poi viene anche sconfitto. Ecco, c’è una differenza immensa tra uno sfigato e il giovane Holden di Salinger».
GIORDANO: « Dovessi scegliere un libro sulla solitudine direi Una vita di Guy de Maupassant, o Stoner di John Edward Williams, ma il mio inno generazionale è stata la canzone di Beck che appunto si chiamava Loser
e inneggiava all’eroismo di quella figura. Oggi temo che il mondo sociale semplifichi seccamente tra vincenti e sfigati, senza offrire alternative di senso alla solitudine. È la condizione di tanti giovani, che non vedono qualcuno o qualcosa che attenda i loro sforzi di diventare qualcosa o qualcuno. Per questoUna vita in vacanza dello Stato Sociale è anche un grido liberatorio: “nessuno che dice: se sbagli sei fuori”».
Per Camus c’è da trovare il modo di essere soli e felici.
ORLANDO: « Può valere per un artista, un intellettuale. Ma credo che per chi non è tale essere più soli significhi essere più infelici».
GIORDANO: «Il punto è potersi permettere la consapevolezza di questa solitudine. Devi essere in grado di sceglierla e di darle un tuo senso personale. Essere condannati da un sistema culturale e sociale all’irrilevanza è tutt’altra cosa, è pericoloso e annientante».
ORLANDO: « Credo che in questo mondo caotico la sola strada sia cercare di rimanere vicino a ciò che si fa, scegliere ciò che si desidera davvero, domandarsi ogni giorno perché facciamo quel che facciamo. Quello che smette di chiedersi Oblomov in quel film straordinario di Nikita Michalkov».
GIORDANO: « C’è una contraddizione che ormai investe l’idea che ci facciamo della particolarità dell’uomo. Viene premiata o schiacciata? Esaltata o repressa? È un mondo difficile da comprendere, perché chiede a ciascuno di esprimere sé stesso e poi però tende ad annientare le diversità. Per dirla con la matematica: costruisce numeri primi, ma trattiene solo i divisibili».