il Fatto Quotidiano, 1 luglio 2018
«Eravamo Nomadi, ma ogni sera tornavamo a casa». Intervista a Beppe Carletti
Primi anni Sessanta. Provincia di Modena. La folgorazione, una sera, dentro una balera: “Ero seduto in platea in attesa della musica. A un certo punto sale sul palco un tipo particolare, un ragazzino magrissimo, con tre peli di barba, gli occhiali spessi, la montatura importante, si muoveva a molla. Quando cantava quasi saltava, con il pubblico non molto persuaso da questi atteggiamenti, direi scocciato; il repertorio musicale non era adatto all’occasione. Io al contrario mi fermo, un po’ per simpatia, un po’ per curiosità, soprattutto per il suo magnetismo. Avevo trovato il cantante giusto, e non solo…”. Beppe Carletti aveva scovato l’amico, il socio, il confidente, il compagno di migliaia di chilometri in macchina o pulmino; l’amico accompagnato fino all’ultimo giorno, fino all’addio; aveva appena conosciuto Augusto Daolio, l’altra metà dei Nomadi, una delle più belle voci italiane, per stile e forma, scomparso nel 1992, protagonista della sua biografia appena pubblicata (Questi sono i Nomadi e io sono Beppe Carletti).
La balera “galeotta”…
Era la serata più attesa, dove tutti si ritrovavano, dove investivi i soldi guadagnati la settimana, dove ti giocavi la gioia o il rammarico dei giorni a seguire, e questo tra una bottiglia di vino, un sorriso e il desiderio di invitare una ragazza a ballare; perché allora si andava solo per trovare l’amore, per sognare: l’abbraccio durante il lento era il massimo del contatto fisico concesso…
Mentre Augusto…
Si presentò con Be Bop a Lula e altri brani simili. Quindi lo sconcerto fu generale. Ma lui, anche da giovanissimo, era così: grande garbo, sempre tranquillo, ma pochi compromessi, aveva chiara la sua direzione.
Più volte nel libro rivendica le sue origini di paese, semplici.
Siamo figli del secondo dopoguerra, cresciuti in una realtà contadina e partigiana, non dico misera, perché il pane c’era per tutti, però l’aria che si respirava non era da benestanti.
Suo padre non era comunista…
No, ma tutte le domeniche mattina apriva le finestre e sparava al massimo volume Bandiera rossa e L’Internazionale, l’intero repertorio dell’orgoglio operaio e contadino. Gli altri dovevano ascoltare. E poi mio padre è stato in un campo di concentramento, su certe storie non si scherzava.
Insomma, lei illuminato da Augusto.
Allora il mio gruppo aveva un cantante di 35 anni da noi considerato vecchio, si chiamava Gastone, una bravissima persona, mi ha insegnato molto: su come si sta sul palco, i segreti per capire il pubblico della balera. Però con Augusto è cambiato ogni lato della mia vita.
Lei racconta: “Ci urlavano finocchi e busoni”.
E anche: “Levatevi dalle palle”. Ma è normale, a quei tempi portare i capelli lunghi era una sfida al costume, quando andavamo in giro per il paese era un continuo, sentivamo i più grandi dirci alle spalle: “Se quello fosse mio figlio, non lo farei neanche sedere a tavola”. L’obiettivo era umiliare.
E a voi…
Non ce ne importava nulla.
Eppure stavate al nord…
Un nord dove la vita era radicata nella terra, le tradizioni e i ruoli delineati, gli uomini rasati e le donne senza tinta. Vedere dei capelloni era una provocazione.
In casa cosa dicevano?
A prescindere dall’estetica eravamo ragazzi tranquilli, e i mie sono stati bravissimi nell’evitare facili pressioni psicologiche, quando sicuramente i vicini, i parenti o gli amici si lamentavano di noi.
Come gruppo avete trovato subito dei riscontri.
A 16 anni eravamo dei piccoli professionisti, ingaggiati per la stagione a Riccione. Però quando l’ho detto a mia madre, lei senza perdere la calma, ha risposto: “Bravo, fai pure, intanto domani mattina vai a lavorare”. Temeva potessi finire tra gli sbandati o i morti di fame. Impossibile.
Qualcosa da mangiare si rimediava sempre.
Pane e salame non mancava mai, era la base dell’alimentazione, ogni famiglia aveva i suoi insaccati, le sue ricette, i suoi ingredienti segreti.
Dicevamo: gavetta breve.
Una sera suoniamo a Modena, il direttore di sala, uno bravo, con ambizioni da produttore, alla fine dello show mi rivela: “Domani ho appuntamento a Milano da un’etichetta discografica”. E io: “Mi porti?”. Vado, strappo un provino, il provino diventa un disco, con il disco finiamo al Cantagiro e con una canzone perfetta per noi: Come potete giudicar (“per i capelli che portiam…”). Un successone.
Sempre senza muovervi dalla provincia.
Un giorno arriva un discografico legato al Clan Celentano, ci voleva con loro. Rifiutiamo. Temevamo di perdere noi stessi, non ci piacevano le realtà metropolitane, non ci sentivamo dentro certi atteggiamenti pratici e attitudini mentali.
Niente sesso droga e rock…
Droga? Per amor del cielo: una volta abbiamo lasciato a casa un tecnico, dopo averlo beccato in bagno mentre si faceva. E l’unico vizio di Augusto era quello di fumare, sempre. Più un po’ di vino rosso.
Altro che ribelli.
Ci ha salvato il paese (e scandisce “paese”): alla fine cercavamo, e cerchiamo ancora, di tornare a casa la sera: tanti anni fa, dopo un concerto, ci siamo messi in macchina da Paola, senza alcun motivo particolare, solo per rientrare. Otto ore e passa di viaggio.
Gli altri artisti vi prendevano in giro?
Capitava, spesso ci hanno dati per superati o spacciati, poi negli anni qualche soddisfazione ce la siamo tolta: noi siamo qui.
Come Maurizio Vandelli…
Negli anni Sessanta doveva entrare nei Nomadi, per ben due volte ha suonato con noi, poi all’improvviso è scomparso, fino a incontrarlo nel 1965 al Piper di Roma. Mi guarda, si scusa: “Sono in debito, quindi vi porto alla RCA, magari ne nasce qualcosa”. Peccato che era sabato, la sede chiusa.
Bello scherzetto…
A lui è sempre piaciuto il ruolo di prima donna, e in fondo eravamo buoni amici, tutti nati nella stessa zona, spesso ci trovavamo al bar Italia di Modena, punto di raccordo di una serie di artisti come Bonvi o Francesco Guccini, e lì ricche chiacchierate, progetti, idee o una partita a briscola.
Non vi sentivate prime donne?
Per quel ruolo ci vuole le physique du rôle, e ci è sempre mancato, così come gli occhi azzurri e capelli biondi.
I Nomadi hanno avuto 23 elementi.
Quasi un record, una tribù, e ognuno ha dato il suo contributo, non con tutti ci siamo lasciati benissimo, è fisiologico, però il risultato è quello di 55 anni di storia di una band (è uscito un cd per celebrare l’anniversario).
Al centro di questa storia c’è “Dio è morto”.
Con quella canzone abbiamo ricoperto l’intero arco degli insulti e dei problemi: quando l’abbiamo cantata a Catania, nessuno dei presenti l’aveva ascoltata, la radio non la trasmetteva, e dal pubblico ci è arrivato qualche sassolino.
Sassaiola?
La censura aveva proibito qualsiasi forma di diffusione, nessuno conosceva il testo, nessuno aveva gli strumenti, anche culturali, per comprenderne il vero significato; al terzo Dio è morto è iniziata la protesta.
Non sono arrivati al “risorto”.
È storia: solo Radio Vaticana capì, solo loro la suonavano senza alcun problema.
Censurati, quindi.
Ed è stata anche un po’ la nostra fortuna, nonostante il pezzo non lo volesse neanche la casa discografica; però noi eravamo così: non belli, senza physique, ma concreti, e quando Augusto cantava, era credibile come pochi. Aveva una capacità interpretativa difficile da ritrovare.
E dopo?
In seguito a Dio è morto la censura ha iniziato a controllare ogni nostro brano; ma allora quando incidevi un pezzo, prima lo dovevi spedire alla Rai, verificavano l’intonazione, poi al ministero.
Intonazione?
Sì, se oggi ci fosse la stessa procedura, quasi nessuno andrebbe in video: oggi per trovare le note si affidano ai marchingegni.
Negli anni Ottanta siete stati allontanati dall’etichetta discografica per estremismo politico: scusa o realtà?
Non credevano più in noi, sul mercato era arrivata la disco music, e tutti i cantanti dati per spacciati: bastava mettere i dischi e arrivederci, i costi crollati a favore del ricavo immediato.
E voi?
Costretti a diventare indipendenti: per dieci anni ci siamo prodotti, solo fortunati nell’individuare un bravo distributore; da lì è partito un tour infinito, e nonostante ce lo sconsigliassero: “Vi inflazionate”. Ma un cavolo!
Voi comunisti.
Nessuno ha mai avuto una tessera di partito, però quella è la nostra storia, ci abbiamo creduto, le feste dell’Unità ci chiamavano e andavamo.
Avete incrociato Berlinguer in un comizio storico.
A Roma nel 1983, l’anno precedente la sua morte. Ci fermò prima di salire sul palco e con dei modi quasi timidi: “Le nostre figlie sono vostre fan, mi potete lasciare un autografo per Bianca?”.
Voi spiazzati…
Berlinguer era un colosso, anche se piccolo di statura aveva un’aura impressionante, incuteva un rispetto particolare, non timore, direi ammirazione. E poi quella fu l’occasione in cui Benigni lo prese in braccio.
“Io vagabondo”.
Pezzo dimenticato per anni e anni, il pubblico non lo chiedeva, e noi avevamo smesso di cantarlo, fino a quando l’ha riscoperto Fiorello con il Karaoke: grazie a lui è di nuovo esploso.
In carriera avete incrociato un giovane Ligabue.
Luciano un giorno arriva, mi porta una cassetta per proporci i suoi pezzi. Torna il giorno dopo, lo ringrazio, “ma sono canzoni perfette per te, le devi cantare tu”. È andata bene così.
Mentre un piccolo fan è stato Zucchero.
Veniva ai concerti accompagnato dal padre; piano piano ci siamo conosciuti, quando ha deciso di diventare musicista l’ho mandato dai responsabili della mia casa discografica spacciandolo per un cugino.
Lei è un talent scout, altro che la Maionchi…
No, è più brava lei, ci conosciamo dagli anni Settanta ed è un vero volpone, sempre con la battuta pronta. Non la becchi mai in contropiede.
Guccini.
A lui sono legato da sempre, molti nostri successi sono nati dalla sua penna. Carismatico dal primo momento in cui ci siamo conosciuti: quando parlava, chi lo ascoltava, restava affascinato, e certe doti non si imparano.
Gli anni Ottanta sono stati quelli più complicati.
Una volta tornavamo da Ravenna, ci fermiamo in un autogrill. Ordino il caffè, mi appoggio al bancone, nel frattempo una radio locale manda Dio è morto. Uno dei baristi si rivolge al collega: “Chissà dove sono andati a finire i Nomadi…”. Io in silenzio sorseggio, poi esco.
Zitto.
E che dovevo dire? Dopo siamo scoppiati a ridere.
È cattolico?
Sì, però mica tanto credente.
Il 1992 lo definisce “l’anno del dolore”.
E dal quale è stato complicato riprendersi. A gennaio muore all’improvviso la mamma di Augusto, e mentre lui è in viaggio in Turchia. Un vero choc. Dopo pochissimo tempo lo stesso Augusto non si sente bene, subito le analisi: scopriamo che ha un tumore al cervello.
Voi non gli dite nulla.
Non c’erano speranze, con la compagna decidiamo di tenerci il segreto, stava bene solo sul palco, il suo vero habitat, così continuiamo. A maggio poi muore in un incidente stradale il nostro Dante (Pergreffi), persona magnifica. E anche in quel caso siamo andati avanti, non potevamo fermarci.
Fino all’ultimo concerto…
Gli ultimi due li ricordo come uno strazio: avevamo organizzato un live acustico, seduti sugli sgabelli in modo da non affaticarlo. Ma non aveva le forze, la voce non era la sua e dal pubblico partirono fischi, proteste, urla. Augusto mortificato. Qualche giorno dopo ne avevamo un altro, ma prima di salire sul palco gli venne una crisi epilettica e finì tutto.
È morto a ottobre.
Nell’ultimo mese siamo stati sempre insieme, tutti gli amici più cari raccolti la sera intorno a lui per bere, parlare, magari canticchiare. Ci ha lasciato all’alba, ero appena andato via da casa, in bicicletta: quel giorno mi ha voluto risparmiare l’ultimo respiro.
(Quando Augusto è morto e purtroppo non è risorto).