Corriere della Sera, 1 luglio 2018
Sospetti, trappole, processi La guerra russa allo storico che indaga gli orrori di Stalin
Yurij Dmitriyev, uno storico ed etnologo sessantaduenne che ha alzato il velo in questi anni sui crimini staliniani in Karelia, è di nuovo in prigione. L’accusa è di aver compiuto atti sessuali «violenti» nei confronti della figlia adottiva tredicenne. Ma la vicenda è sempre quella dalla quale era stato assolto in primavera dopo aver passato un anno in prigione. Allora l’addebito era più leggero e ruotava su nove foto della ragazzina. Adesso Dmitriyev rischia venti anni di carcere e il suo caso sta suscitando grandi polemiche.
Lo storico è il responsabile dell’ufficio in Karelia (al confine con la Finlandia) di Memorial, l’associazione fondata dal premio Nobel per la pace Andrej Sakharov che si occupa della riabilitazione delle vittime staliniane e dei diritti umani in Russia. Dopodomani si apre poi il processo contro Oyub Titiyev, direttore dell’ufficio dell’organizzazione in Cecenia. Lui, che lavora in un ambiente particolarmente ostile (controllato dall’uomo forte di Putin, Ramzan Kadyrov) è imputato di possesso di droga. Gliel’hanno trovata in macchina. Nella Russia centrale, a Yoshkar-Ola, le autorità locali stanno poi per sfrattare sempre la stessa Memorial per «violazioni amministrative». Poco distante, i funzionari dell’Organizzazione non governativa hanno scoperto una fossa con duecento vittime delle esecuzioni degli anni Trenta.
È sempre più difficile dare torto ai difensori dei diritti umani quando dicono che tutto questo non è casuale. «Sono in molti a non amarci, soprattutto in determinate strutture», dice il presidente di Memorial Ian Rachinskij. Che aggiunge: «Il passato di Putin ha il suo peso».
Il caso di Dmitriyev è sintomatico. Lui ha ricostruito la storia di quarantamila persone finite nell’ingranaggio delle «purghe» nella sua regione soprattutto nel biennio 1937-1938. Poi ha scoperto l’enorme carnaio di Sandarmokh dove furono nascosti i corpi di novemila vittime.
Trent’anni di lavoro interrotti l’anno scorso quando è scattata una perquisizione. Nel computer hanno trovato nove foto della figlia in un file intitolato «salute». La ragazzina era debole di costituzione e Yurij l’aveva fotografata nuda di fronte e di profili in pose chiaramente mediche. Almeno stando a testimonianze di esperti i quali hanno escluso che si potesse trattare di materiale creato a scopo pornografico. Lo storico è stato anche sottoposto a esami da parte di un istituto psichiatrico governativo che non ha riscontrato tendenze pedofile.
Ma l’assoluzione di pochi mesi fa ha innescato le nuove accuse, assai più gravi. Tulle le Ong in Russia hanno enormi difficoltà, ma Memorial, la più prestigiosa, sembra in collisione continua con le autorità. Ai tempi del presidente Eltsin, la riabilitazione dei milioni di russi repressi fu addirittura affidata a una commissione presieduta da Aleksandr Yakovlev, ex ideologo della perestrojka di Gorbaciov. Ma anche lui aveva non pochi problemi nella sua attività: «Nonostante la copertura presidenziale, alla vecchia sede del Kgb dove ora lavora l’Fsb, mi negano i dossier», mi confessò una volta con amarezza.
Dal Duemila le cose sono peggiorate. Memorial ha recentemente pubblicato una lista con quarantaduemila nomi di agenti della polizia politica dell’epoca, l’Nkvd, promossi o decorati tra il 1935 e il 1939. Verosimilmente molti furono coinvolti nelle uccisioni. In quattromila furono a loro volta fucilati per ordine di Stalin. La cosa ha suscitato le proteste di attuali agenti e di familiari. Alcuni hanno scritto una lettera aperta a Putin. Altri hanno rilasciato dichiarazioni: «È come andare a rovistare nei panni sporchi. C’è chi vuole creare difficoltà al Paese», ha detto il nipote dell’agente Yakov Vasiliev.
Ma lo scopo di Memorial è un altro: quello di consentire una riconciliazione tra discendenti delle vittime e dei carnefici. Denis Karagodin, ad esempio, ha ricevuto la lettera di Yulia Zyrianova, nipote dell’uomo che aveva fucilato il bisnonno: «Una pagina infame nella storia della mia famiglia», c’era scritto.