il Giornale, 1 luglio 2018
Quei manifesti sono capolavori. Ecco chi erano i pittori da cinema
Una meraviglia. Per chi ha più di cinquant’anni sembra di sfogliare l’album dei ricordi dell’infanzia. Per i più giovani, invece, la riscoperta ha il sapore vintage a tempo di lounge e cocktail music.
Esce nei prossimi giorni Pittori di cinema, volume di 432 pagine con oltre 500 illustrazioni, scritto da Maurizio Baroni, studioso e collezionista di oltre 28mila manifesti, edito da Lazy Dog Press e disegnato da Bunker. È il racconto, per immagini e testi, di un fenomeno tutto italiano, cominciato negli anni ’50 e durato per almeno due decenni, l’età dell’oro della settima arte, destinata temo a durare meno della pittura o della poesia, quando in provincia e nei quartieri di periferia c’erano tante piccole sale cinematografiche, le terze visioni e le parrocchie, perché solo in pochi potevano permettersi di arrivare in centro e gustarsi i film appena usciti.
Ai non cultori della materia i nomi di questi specialisti potrebbero non dire molto, a parte forse Giuliano Geleng, noto anche come pittore e molto amato da Federico Fellini (suo il manifesto di Amarcord dal curioso formato orizzontale). I cinefili invece sanno che le figure disegnate, molto più del manifesto fotografico spesso piatto e banale, risultavano spesso decisive nella scelta di un film. Doveva intrigare il pubblico con una sola immagine, «beccare» subito il centro della narrazione distribuendo gli elementi giusti presi dalla cultura popolare di genere ma anche dall’arte alta, dal Liberty a Toulouse-Lautrec, dalla Bauhaus alla Pop.
Sono storie avvincenti di piccoli geni, come quello burbero, intollerante, gran fumatore, di Sandro Symeoni di cui resta memorabile il litigio con Andy Warhol che pretendeva di appropriarsi, firmandolo, del suo disegno per Trash di Paul Morissey. A questo leggendario autore ferrarese, che citava Saul Bass e cercava di eludere la censura rappresentando I racconti di Canterbury di Pasolini, si devono autentici capolavori, i manifesti per L’occhio nel labirinto di Mario Cajano e Grazie zia di Salvatore Samperi. E proprio tra i bmovies, le commedie all’italiana, troviamo alcuni gioielli che meriterebbero posto in una qualche sala museale: come non citare Lo strangolatore di Boston del 1966, disegnato da Giuliano Nistri, o il più noto Ieri, oggi, domani di Vittorio De Sica (1963), opera di Arnaldo Putzu.
Sepolti dalla polvere e ingialliti, questi manifesti sono tornati di moda negli anni ’90 con la riscoperta dell’Easy Listening e delle colonne sonore di Armando Trovajoli, Piero Umiliani, Piero Piccioni, Luis Bacalov ed Ennio Morricone, utilizzate nelle commedie sexy e in quei sottogeneri più oscuri i famigerati Mondo movies e Snuff – di cui gli italiani erano specialisti. Oltre alle immagini, il lettering così audace e sperimentale aveva la sua importanza, rivoluzionando l’impostazione della pagina.
I pittori di cinema hanno mescolato sapienza accademica a pura invenzione. Talmente bravi da essere chiamati a illustrare i film hollywoodiani. Manfredo Acerbo, che guarda all’espressionismo, passa dagli italianissimi Europa di notte e il Dio serpente ai bozzetti americani di Vera Cruz (Robert Aldrich), di diversi autori europei (Truffaut, Bunuel) fino alle commedie musicali dei Beatles. Tino Avelli lavora con Altman, Cimino, Ken Russel e per il David Bowie de L’uomo che cadde sulla terra.
Anselmo Ballestrer, nato a fine 800, fu il capostipite della pittura di cinema, fin dal mitico Ombre rosse di John Ford (1939), quindi le versioni italiane di diversi Chaplin, Hitchcock, Lang, Welles e dell’iconografia machista di Marlon Brando in Fronte del porto. Decisamente più delicato l’acquarello di Ercole Brini, autore del manifesto di Colazione da Tiffany che tanto ha contribuito al successo dell’immagine di Audrey Hepburn secondo Truman Capote, nonché di una tra le tante versioni del bacio tra Rhett Butler e Scarlett O’Hara in Via col vento.
Ogni pittore è una storia che si potrebbe raccontare ancora tante volte rimpiangendo quella materia di celluloide così preziosa e nostalgica. Tra le invenzioni per Un americano a Parigi con Gene Kelly che balla sullo sfondo geometrico alla Mondrian e Diabolik, horror italiano firmato Mario Bava, spicca il lavoro di Mario De Berardinis, morto prematuramente, e i suoi disegni per Addio, fratello crudele di Giuseppe Patroni Griffi (un capolavoro assimilabile a un fregio di Sartorio), per Banditi a Milano di Lizzani e Suspiria di Dario Argento.
Scrive Alessandra Cesselon, storica del cinema e figlia di Angelo che «i pittori di cinema hanno prodotto un patrimonio ricco e variegato di opere, un corpus importante che apre nuove interessanti prospettive per una straordinaria opportunità di rilettura ampliata dei panorami finora tracciati della storia dell’arte del ’900 italiano».