la Repubblica, 1 luglio 2018
Intervista a Giuseppe Trautteur
In un punto appartato di Napoli, in una casa ordinata e luminosa, vive Giuseppe Trautteur. Le sue origini sono svizzere ma è nato a Napoli nel 1936. È alto e robusto, con un volto largo e leonino. Ha modi affabili il professore, esperto autorevole di intelligenza artificiale e consulente scientifico della casa editrice Adelphi. Non c’è libro della collana scientifica che non passi al vaglio delle sue conoscenze. Ero curioso di incontrare questo signore singolarissimo, di cui si conoscono pochi articoli, molto tecnici, ma nessun libro compiuto. Come se, la formidabile abbondanza di idee e di suggerimenti gli provochi il totale disinteresse per la scrittura. Negli spazi domestici, oltre ai libri e ai quadri, noto una considerevole quantità di orologi. Di varie fattezze. Alcuni sono antiche pendole a muro; altri di stile biedermeier, altri ancora sono orologi da tasca esposti in una teca. Parrebbe la classica mania del collezionista se non fosse che dietro quegli artefatti si cela un’inclinazione artigianale. La stessa che Trautteur da bambino mostrava per i treni.
È un hobby o c’è qualcosa di più e di diverso?
«Ho sempre amato gli oggetti meccanici. Li ho esaminati, smontati e ricostruiti come fossero nature vive. Valeva per i treni, che da bambino collezionavo, e in seguito per gli orologi. Se poi in una tale attrazione ci sia qualcosa di ulteriore – riconducibile all’immaginazione – bene. Dagli oggetti possiamo ricavare un piacere estetico che va oltre la loro funzione».
E questo l’ha spinta ad interessarsi di scienza?
«Da qui è nata la passione per la fisica teorica. Passione frustrata dalla mia scarsa inclinazione per la matematica. Intendiamoci, sono un buon matematico ma niente a che vedere con quei rari talenti che hanno attraversato il primo Novecento».
Che cosa ha di diverso un talento matematico?
«È in grado di vedere strutture astratte come fossero entità concettualmente vive».
Ha un modo strano di presentarsi?
«Ho vissuto e patito i miei limiti e i miei tormenti».
Era così anche da bambino?
«Un’età fatata a fronte delle pene dell’adolescente e le durezze dell’adulto. Ricordo con nostalgia gli anni in cui ci trasferimmo in Svizzera, quando appresi la lingua dell’allegria».
Cosa la rendeva felice?
«Fuggivamo dagli stenti e dalla fame; dalle bombe annunciate dal rumore dei quadrimotori americani e inglesi. La Napoli della guerra, dove ero nato e dove vivevo, fu terribile. Riparammo a Ottaviano, poi anche lì la situazione precipitò. Il 23 luglio del 1943 arrivammo faticosamente a Ginevra, dove restai per circa tre anni. La cosa peggiore che dovetti affrontare fu il razionamento della cioccolata. Come vede rose e fiori».
Spieghi le sue origini svizzere.
«I miei antenati paterni venivano da un paesino vicino a Ginevra. Fu il bisnonno a emigrare nell’Ottocento verso il Regno delle Due Sicilie. Si stabilì a Napoli e fece fortuna come argentiere e orologiaio. Il ramo materno era di origine napoletana. I genitori di mia madre possedevano qualche moggio di terra vicino a Nola. Sposò mio padre ma fu un matrimonio breve e tragico».
Cosa accadde?
«Papà, laureato in fisica, morì a 24 anni quando avevo solo pochi
mesi. Restò l’ombra del ricordo di mia madre che accrebbe la leggenda del grande scienziato. Una mitologia domestica che avrebbe inciso sulle mie scelte future. Negli anni il dolore si attenuò. La mamma sposò un alto funzionario che guidava il servizio esteri di una banca. Fu una persona di grande rettitudine che mi ha insegnato cose fondamentali«No, perché forte era il richiamo agli studi del mio padre vero. Dopo le elementari e le medie tra Roma e Losanna e poi il liceo, scelsi fisica all’università di Roma. Mi sembrò una decisione naturale. Colmava un’assenza troppo a lungo covata. Non è stata forse la scelta migliore».Perché?«Gliel’ho detto: nessuna autentica inclinazione per la matematica. Avrei voluto diventare un fisico teorico. A giudicare dai risultati fu solo superbia intellettuale».La grande stagione dei fisici geniali – Planck, Bohr, Heisenberg, Fermi – era da tempo tramontata.«È vero, ma questo non attenua il senso di fallimento».Con chi ha studiato?«Con Enrico Persico, che fu compagno e amico di Fermi. Creò un gruppo di ricerca sui gas ionizzati. Vi presi parte e fatalmente finii per occuparmi più di fisica sperimentale che teorica».In seguito è passato a occuparsi di cibernetica«Un altro equivoco. Con la sua voglia di interdisciplinarietà non è mai andata a fondo di niente. Meglio la fisica».Come spiega la grande autorevolezza che la fisica italiana ha avuto nel mondo?«Sembrerebbe un mistero anche perché l’Italia fu sempre dominata da una cultura umanistica. Benedetto Croce, che è stato un grande storico e altrettanto grande filosofo, stroncò, in maniera inesorabile, la scuola matematica di Peano e Vailati. E non fu un bene per lo sviluppo delle scienze. Abbiamo avuto grandi personalità nel campo della fisica sperimentale. Ma la vera genialità pari – se posso ardire a un paragone – alla genialità artistica del Rinascimento, esplose alla fine dell’Ottocento, ed è durata fino agli anni Quaranta».Che cosa accade esattamente alla fine del XIX secolo?«Tramontò la fisica classica. L’elettromagnetismo guidato da Maxwell e la meccanica condotta da Mach, divaricarono in maniera determinante offrendo due spiegazioni diverse del mondo. Solo la relatività ristretta, che Einstein rese nota nel 1905, annullò la distanza. Su un altro versante, qualche anno prima, Max Planck aveva enunciato e definito il problema del “corpo nero”».Rischiamo di smarrirci professore.«Un “corpo nero” è un oggetto ideale capace di assorbire tutta la radiazione elettromagnetica che riceve, senza riflettere nulla. Tuttavia, quell’oggetto è in grado di emettere delle radiazioni. Planck elaborò una legge che potesse spiegare questo fenomeno e lo fece allontanandosi da quello che la fisica classica aveva ipotizzato. Era il 1900 quando Planck presentò, durante un incontro della Società di Fisica tedesca, la sua ipotesi. Fu il battesimo della quantistica che avrebbe, insieme alla relatività di Einstein, rivoluzionato la fisica».Nel 1900 comparve “L’interpretazione dei sogni”.«L’inizio del secolo fu strabiliante per il modo in cui la potenza creativa si manifestò in tutti i campi: dalla fisica alla letteratura, all’arte e appunto alla psicoanalisi. Però, la stratificazione della coscienza che prevede fondali oscuri su cui Freud indagò in modo impareggiabile l’avevano già compresa i gesuiti di Port Royal».È un appassionato di letteratura cristiana?«Indubbiamente ha irrorato l’intera nostra civiltà».Lo dice con una certa ammirazione.«Lo affermo come ovvia constatazione. La battuta su Port Royal sta a indicare che la coscienza per il cristianesimo era costitutiva del soggetto davanti a Dio. Però il cellulare, che per certe cose è molto vicino alla coscienza, non ha rapporti con Dio».Diciamo che ha un gestore diverso. Lei dunque ama la scienza ma non disdegna Dio.«A lungo Dio ha fatto parte del mio paesaggio interiore. Non è stata una presenza motivata. Ho perfino cercato aiuto nell’analisi per capire il perché. Una madre intensamente religiosa, ma piena di dubbi, non giustifica un certo fanatismo che mi avvolse».Sorprendente, sembra quasi di sentirla parlare con un’anima tridentina.«Cosa la sorprende?»Mi chiedo se c’è una relazione tra l’integralismo religioso e il riduzionismo scientifico.«Entrambi semplificano la loro visione del mondo».Una visione particolare del mondo si percepisce dalla collana scientifica dell’Adelphi. Come è riuscito a portare la scienza in una casa editrice che nasceva su tutt’altre premesse?«Devo molto all’amicizia con Bobi Bazlen e Roberto Calasso. Avevo incontrato Roberto quando lui era al liceo e io all’ultimo anno di università. Ci conoscemmo grazie a Bazlen che lo aveva coinvolto nel progetto Adelphi. Era il 1963. Qualche anno dopo dissi a Roberto che avrei visto come un’integrazione felice per la casa editrice la presenza di una collana scientifica. All’inizio non reagì bene».Cosa non lo convinceva?«La letteratura scientifica era in Italia piatta o inutilmente complicata. Su mia insistenza mi suggerì di scrivere una lettera a Luciano Foà, allora a capo dell’Adelphi. Nella lettera dicevo che mi sarebbe piaciuto vedere pubblicati dei libri in cui la parola divulgazione non fosse semplificazione e che raccontassero allo scienziato della porta accanto che cosa l’autore pensava del proprio lavoro».Quasi una narrazione autobiografica in uno stile letterario?«Un racconto restituito in uno stile leggibile. Suggerii due estremi entro cui muovere la collana: i fondamenti della materia (libri di fisica) e i fondamenti della mente ( libri che hanno a che vedere anche con la coscienza)».Uno dei primi lavori pubblicati fu quello di Gregory Bateson “Verso un’ecologia della mente”.«Arrivò il manoscritto e vi trovai immediatamente la conferma di cosa dovesse essere un testo scientifico. Bateson sapeva mettere in relazione aspetti della realtà distanti tra loro. Fu un’apertura al mondo della mente e del comportamento sorprendente e affascinante».Forse la parola “ecologia” ha contribuito al successo?«Non lo so e non è interessante, anche perché quel libro uscì agli inizi degli anni Settanta. Credo sia più significativo che, nella costruzione di un ecosistema della mente, ci fosse un nucleo di spiegazioni su come funziona il comportamento della vita umana che va ben oltre le insoddisfacenti banalità sociologiche».Un altro libro di sorprendente successo fu “Godel Escher Bach”, come lo spiega?«Douglas Hofstadter è un uomo di straordinaria intelligenza dotato di una scrittura notevole e di una fantasia incredibile. I dialoghi di quel libro sono meravigliosi, le argomentazioni precise. Un libro che può essere letto come un’opera d’arte».Può essere anche letto come un suggestivo documento sul destino dell’intelligenza artificiale.«Da Turing in poi quel destino si è fatto evidente».Davvero il computer, come alcuni sostengono, sostituirà interamente le funzioni dell’uomo?«È un campo aperto. Von Neumann per primo confrontò le strutture elettroniche del computer con i neuroni della corteccia cerebrale e concluse che, per un fattore di merito, la struttura biologica superava ancora l’artificiale. Oggi l’artificiale domina il biologico. Attualmente si lavora all’imitazione dei processi mentali».Saremo interamente soppiantati nelle decisioni?«Qualcosa di analogo, ma che escludeva i processi mentali, accadde nell’800 quando la macchina prese il posto del lavoro umano. Allora ci furono numerosi episodi di ribellione».Prevede qualcosa di simile oggi?«Una ribellione che partisse dai processi mentali sarebbe molto più imprevedibile. Oggi Aristotele non direbbe più che l’uomo è un animale razionale perché la razionalità è completamente algoritmica. Quello che è umano è invece l’esperienza: emotiva, veritativa, di conoscenza. Ma non la razionalità!».Tranne qualche raro saggio, lei non ha mai scritto niente di impegnativo. Perché?«Forse per una certa pigrizia mista a una probità intellettuale. Pur non avendo idee banali mi paralizzo davanti al foglio bianco».Cosa accade a quel punto?«Grande sofferenza che si lega a un’ansia che monta».Chi scrisse pochissimo fu Bazlen. Che ricordo ha di lui?«Morì nel luglio del 1965, lo conobbi quattro anni prima. Fu un uomo di un’originalità assoluta: nel modo di leggere e di suggerire. A uno come me, che a 13 anni era terrorizzato dall’inferno, con tutto quello che ne seguì, fece capire che la spiritualità non è esclusiva del cristianesimo. Trovai in lui il senso di protezione che mi era mancato. Intendo protezione concettuale ed emotiva. La cosa straordinaria è che mi prese sul serio».Se ne stupisce?«Oggi molto meno, ma allora sì. Fu un uomo gentile con qualche punta di irascibilità. Ricordo un dettaglio: non voleva mai che gli fosse versato del vino in un bicchiere già parzialmente pieno. Diceva: non si versa sul versato».Strano.«Dopotutto era un modo per dirmi che le cose vanno condotte fino in fondo per poter ricominciare. A volte in sua memoria mi accade di fare la stessa cosa con il vino rosso. E forse spiega anche il mio rapporto con gli oggetti. Devo smontarli a fondo e poi rimontarli se ne voglio percepire la vita».