Il Messaggero, 1 luglio 2018
Smetto di scrivere, anzi no
Hanno fatto molto discutere le parole di Jonathan Franzen che, in una lunga intervista al New York Times, ha annunciato pochi giorni fa che il suo prossimo romanzo (ancora in fase di scrittura) sarà anche, con ogni probabilità, l’ultimo: «Non credo che qualcuno possa avere spazio, dentro di sé, per più di sei romanzi compiuti». Ricontattato dal Guardian, l’autore di Freedom ha però ritrattato («Mai pensato di ritirarmi»), finendo immediatamente nella legione degli autori che dicono di smettere, ma che poi non lo fanno.
ANIMO TORMENTATO
Il mestiere di scrivere, come ben sapeva Pavese, comporta spesso un animo tormentato; e Franzen, negli ultimi anni, ha avuto molte delusioni. Dal 2001 a oggi, il suo romanzo di maggiore successo, Le correzioni, ha venduto 1,6 milioni di copie; difficile non notare la differenza rispetto alle 255mila del suo ultimo Purity, pubblicato tre anni fa. Quest’ultimo romanzo, peraltro, era stato opzionato per una serie tv da Showtime; Franzen si era messo allegramente al lavoro, sapendo che Daniel Craig avrebbe ricoperto il ruolo di protagonista, ed era arrivato a coprire circa 20 ore di puntate con la sua sceneggiatura, finché gli hanno annunciato che il progetto era stato congelato. Non solo. Franzen si sente vittima di persecuzioni, si lamenta di essere il bersaglio di haters, che mal digeriscono i suoi messaggi anti-tecnologici (l’autore di Freedom ha lasciato ogni social network) e la sua passione per il birdwatching. A volte se le va anche a cercare: in una intervista a New Republic è arrivato a dire che Internet sarebbe in balia di una «mafia dei gatti», veri sterminatori dei suoi (beneamati) uccelli.
Un altro autore che ci ha ripensato è Stephen King, che nel 2002 annunciò urbi et orbi il suo ritiro dalle scene. Nessun autore, da allora, è stato prolifico quanto lui; l’ultimo suo romanzo, The Outsider, è stato appena pubblicato in America; da noi arriverà in autunno grazie a Sperling & Kupfer. Harper Lee scrisse soltanto un romanzo nel 1960, Il buio oltre la siepe, che diventò un fortunato film con Gregory Peck; di recente, soltanto quando l’autrice era ormai prossima alla morte, è stato pubblicato Va’, metti una sentinella, che di quel libro era la prima, acerba versione. Il nostro Antonio Moresco aveva annunciato che avrebbe smesso dopo Canti del caos, nel 2009; da allora ha scritto altri cinque romanzi. In un’intervista ha spiegato di avere avvertito «un fuoco interiore».
C’è poi chi, come J. D. Salinger, non pubblica più romanzi, ma continua a scrivere fino alla fine. L’autore de Il giovane Holden si ritirò nel suo remoto rifugio di Cornish, nel New Hampshire, ma non smise mai – secondo alcune testimonianze successive – di compilare il seguito del suo fortunato romanzo, e a tessere le trame della sua saga familiare immaginaria. Nella famosa casa-bunker gli scaffali dell’«eremita» erano pieni di manoscritti, scrupolosamente datati e allineati.
Alcuni, come David Foster Wallace ed Ernest Hemingway, escono di scena soltanto con il suicidio; ma ci sono anche gli scrittori che mantengono la parola. Alice Munro aveva da poco annunciato che avrebbe smesso di scrivere quando ricevette il Premio Nobel, nel 2013. Neanche gli accademici di Svezia sono riusciti a convincerla a cambiare idea: «Sapete, scrivo da quando avevo vent’anni...» Allo stesso modo Philip Roth, che nel 2012 ha annunciato di avere finito la carriera con Nemesis, è rimasto fedele ai suoi propositi, fino alla morte, lo scorso 22 maggio. Spiegava: «Guardate Forster, ha smesso di scrivere narrativa intorno ai 40 anni. E io, che ho infilato un libro dopo l’altro, non ho più scritto niente in tre anni».
IL BATTELLO EBBRO
Il caso di Arthur Rimbaud è leggendario. Una volta che considerò conclusa la sua «stagione all’inferno», il pupillo e amante di Verlaine si mise in moto (proprio) come un «battello ebbro», abbandonò del tutto la poesia e cominciò le sue peregrinazioni in Africa.
A volte si tradisce un genere per trovarne un altro. Quando Herman Melville, amareggiato dall’insuccesso (malgrado avesse pubblicato pochi anni prima un libro intitolato Moby Dick), decise di smettere di scrivere romanzi, per dedicarsi soltanto alle conferenze a pagamento, sfogò la creatività letteraria componendo versi. Al contrario, T.S. Eliot si dedicò soltanto al teatro e alla saggistica, a partire da The Rock in poi. L’autore di The Waste Land non mancava certo di inventiva e una volta (era il 1921) cercò di autofinanziarsi con un sistema molto simile al moderno crowdfunding. In fondo, diceva, «la poesia non è un libero movimento dell’emozione, ma una fuga dall’emozione».
C’è poi chi non scrive perché troppo intento a riscrivere. Alessandro Manzoni ci ha messo vent’anni a limare Fermo e Lucia, finché non sono sbocciati I promessi sposi. Stefano D’Arrigo ci mise più o meno lo spesso tempo per decidere che le 1257 pagine del suo Orcynus Orca erano degne della pubblicazione. Anche Alberto Arbasino ha rivisto totalmente il suo Fratelli d’Italia, pubblicato prima nel 1963 e quindi rimaneggiato, prima nel 1967 e infine nel 1991. In fondo, come scrisse Pavese, «nell’inquietudine e nello sforzo di scrivere, ciò che sostiene è la certezza che nella pagina resta qualcosa di non detto».