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 2018  luglio 01 Domenica calendario

«Mao, Beatles & coca La vita che non vissi». Intervista a Marco Bellocchio

Marco è stato uno dei cineasti più belli del nostro cinema, molti colleghi ne erano segretamente innamorati”, raccontava Ettore Scola. Vittorio Gassmann non avrebbe mai girato con lui “perché non lavoro con un regista che è più attraente di me”. A 78 anni Marco Bellocchio, maglietta a maniche corte e pantaloni sportivi, ha lo stesso fisico asciutto, lo stesso sorriso distante. A pochi giorni dalla notizia della sua inclusione nella giuria degli Oscar, è nello studio romano di via Nomentana, in partenza per Londra dove da oggi e per un mese intero al British Film Institute prende il via Satira e moralità, la prima retrospettiva inglese dedicata ai suoi film. Che non sono solo storia, ma presente e futuro del nostro cinema. Il regista prepara Il traditore su Tommaso Buscetta e L’urlo, sul suicidio del gemello Camillo. In coda c’è la serie sul rapimento di Aldo Moro: «È una sfida col tempo, una sfida alla volta».
Perché nel ’63 partì ventiquattrenne per Londra?
«Andai per sprovincializzarmi. I miei luoghi erano stati Piacenza, Lodi, Milano e Roma, dove mi ero diplomato in regia al Centro Sperimentale. E siccome – questo era ed è un mio limite – non avevo intenzione di fare la gavetta, ho messo una pausa prima di affrontare la vita professionale. Mi iscrissi a una scuoletta d’inglese in Piccadilly Circus, mio fratello Piergiorgio mi mandava i soldi per sopravvivere. Vinsi una borsa di studio alla Slade School of Fine Arts grazie al regista Thorold Dickinson. Soprattutto conobbi Enzo Doria, ex attore che lavorava come cameriere e voleva fare il produttore. A Londra scrissi la prima versione di I pugni in tasca».
Come fu l’impatto con la società inglese?
«Poi fui rimproverato perché mantenni un profilo provinciale. Non approfittai di quelle coincidenze straordinarie: Rolling Stones, Beatles... C’era la libertà sessuale che ho percepito e in parte vissuto, sempre un po’ da provinciale, appunto».«Forse la deludo, sì. Ho vissuto con prudenza, in questo senso ho evitato le droghe e le derive autodistruttive. Ho sempre fatto film estremi ma nella vita mi sono difeso. Ho bordeggiato la rovina, la morte. Sono stato amico di Franco Angeli, Mario Schifano e Tano Festa, e quindi la cocaina, l’eroina… Cose che ho toccato senza mai entrarci davvero, tanto che poi ci separammo».Quale cinema inglese la folgorò e influenzò?«Il realismo che si vede ancora in Ken Loach, ma le mie radici erano Renoir e Vigo: surrealismo e espressionismo».Fece una tesi su Antonioni e Bresson.«Autori di cui ammiravo il rigore che non possedevo. Bresson mi diede un’intervista al telefono, Antonioni mi incontrò sui gradini in Piazza del Popolo e mi accolse sul set diDeserto rosso.Molti giovani riescono a creare nel rapporto con gli autori affermati un interesse reciproco. Io non avevo questa capacità di penetrazione affettiva. Ero un solitario: non per scelta, ma per limite. Il cinema mi è stato utile alla vita».E poi c’era la politica.«Sì, allora il peso della politica e dell’ideologia era fortissimo. Con il ’68 ci fu una crisi importante. Nel senso che la scelta, pur breve, della militanza politica nell’Unione dei comunisti marxisti leninisti e nel maoismo rappresentava il mio rigetto di una mentalità borghese che detestavo. Pensavo che una rivoluzione politica personale potesse essere un riscatto. In questo senso nel ’77 e ’78 c’è stata l’esperienza di analisi collettiva con Massimo Fagioli. Ancora la fissazione che si potesse cambiare e che solo nel cambiamento si potesse combattere la disperazione, avere una dimensione di autenticità».Vale ancora adesso per lei?«Vale ancor di più nell’età avanzata. Perché solo così, dal momento che non credo nell’aldilà, mi sento vivo».Il suo cinema ha raccontato l’Italia e la politica. I maoisti e l’eutanasia, Moro e Mussolini. Oggi?«La politica non mi interessa più. C’è una paura diffusa, in grande misura inventata, alla base del successo di tanti movimenti. Ma vedo nei giovani una sensibiiltà sui temi degli immigrati e dei diseredati. C’è un movimento reattivo che non vede nello zingaro qualcuno da prendere a martellate».Perché il suo cinema è stato spesso estremo?«Una certa dimensione anarchica contro i padri e coloro che vogliono importi il proprio sapere c’è stata. È chiaro che questo andare contro nel tempo è diventato più pacifico e moderato. Penso al passaggio tra I pugni in tasca e L’ora di religione, quando il personaggio di Sergio Castellitto vede il proprio passato e capisce che il matricida è in manicomio, che la giustizia contro la madre porta alla follia e all’autodistruzione. Questa dimensione, anarchica ma non violenta, torna sempre».Come la morte del suo gemello Camillo.«Nel 1982 feci il film Gli occhi e la bocca sul suo suicidio. Ma mi restò la sensazione che la presenza di mia madre mi avesse reso meno capace di approfondire quella tragedia. Così, dopo un compleanno in famiglia del 2016, ho iniziato una carrellata di ritratti familiari che sono anche testimonianze alla ricerca di una verità. Il titolo del film è L’urlo, quello di mia madre davanti al corpo di suo figlio, chiaramente il rimando è alla Madonna e Gesù. Mio fratello gemello si ferma nel dicembre del ’68 a ventinove anni. Io vado avanti e invecchio e lui non c’è più, ma resta la sua immagine di giovane uomo. Sarà il film più difficile, spero di vivere abbastanza per finirlo».È cresciuto in una famiglia numerosa.«Eravamo nove fratelli. Uno morì piccino. Avevo una sorella sordomuta, il primogenito era malato mentale, le sue urla hanno segnato la mia adolescenza. Tornavo dal collegio a Lodi e c’era sempre il pazzo che urlava: in I pugni in tasca si trasforma nel fratello che il protagonista alla fine uccide. Quel film lo girammo in due appartamenti di mia madre. Ma la storia privata è talmente metaforizzata che i miei familiari solo anni dopo si accorsero che parlavo di noi. Mia madre mi mandò una lettera ironica, che nell’Urlo leggerà mia sorella. Non era stupida, come faccio dire a Castellitto in L’ora di relgione, ma sopraffatta dalla necessità familiare. Ha retto a ogni dolore, non si è mai goduta nulla. Era ossessionata dall’idea che ci salvassimo l’anima. Accusava Piergiorgio di averci allontanati da parrocchia e fede. Non era vero».Con Camillo avevate il rapporto speciale dei gemelli?«No. A 14 anni decisero di mandare me al liceo classico, anche se ero mediocre, e lui all’istituto per geometri. Da lì ci separammo. Questa distanza poi io l’ho sentita come una mia mancanza. Ero più autonomo, anche se la vita privata faceva acqua in fondo me la cavavo, avevo una mia identità professionale forte. Per capirlo e andargli incontro ci sarebbe voluta una ricchezza sentimentale che non avevo».Ha fatto sempre film personali: qual è il legame con Tommaso Buscetta?«Il tradimento. Mi è venuto in mente il mio tradimento verso tutta una società, la mia educazione cattolica. Si può tradire in modo vile, o il tradimento può essere una separazione. In Buscetta c’è l’ambiguità e la sofferenza di un uomo che tradisce, ma al tempo stesso rimane un mafioso. Quando gli fanno sparire i figli scatta l’odio e la sensazione di non averli protetti. Ha davanti due possibilità: morire – infatti tenterà di suicidarsi – o parlare contro una mafia che lui non riconosce più. È il crepuscolo di un antieroe che però riesce a morire nel suo letto. Tutti gli altri sono stati ammazzati. Lui no. Quando Falcone, che era un fatalista e lettore di Montaigne, gli dice “tutti dobbiamo morire”, Buscetta risponde “sì, ma io voglio morire nel mio letto”».Dopo tanti anni resta l’ansia del pubblico?«Girando I pugni in tasca pensavo: “Ho 25 anni, se fallisco farò altro”. Nasco come pittore, Grazia Cherchi mi diceva “lascia perdere i film, sei pittore e poeta”. Si sbagliava, in realtà il cinema è davvero la mia vita. Ma non, come dice qualcuno, per non diventare pazzo. È che ti mette in gioco continuamente con decine di persone, ti obbliga a confrontarti e a lottare. In passato c’era l’ambizione, la rivalità. Per anni ho subìto il gran successo di Bernardo Bertolucci: era diventato una star internazionale, mentre io ero ammirato e stimato in un ambito più piccolo. Adesso questo aspetto non c’è più. Ma c’è il sentimento di giocarmi ancor più la vita».Anche Bertolucci prepara il nuovo film.«Abbiamo cenato insieme un mese fa, un incontro cordiale. È come se la sua vita fosse anche la mia, con tanti grandi padri scomparsi. Noi dobbiamo resistere».