La Stampa, 1 luglio 2018
In morte di Irena Szewinska
Irena, la versione al femminile di Livio Berruti. La sua corsa era un inno al gesto atletico. Una corrente d’aria soffiata dagli déi degli stadi la trasportava. Come Livio, l’indimenticabile re di Roma 1960. Esagerazioni? No. Chi l’ha ammirata nel suo lungo percorso agonistico (da Tokyo 1964 a Mosca 1980) lo sa. Irena Kirszenstein poi sposata Szewinska, nata a Leningrado da genitori polacchi di origine ebrea presto tornati in patria, è morta ieri a 72 anni. La natura non era stata generosa con lei disegnandone i tratti del viso spigolosi, un naso forte, ma l’aveva ripagata ampiamente donandole un corpo da mannequin (1,76 per 60 kg), una grazia tutta femminile nelle espressioni, nelle movenze sportive. Dai 100 ai 400: nella storia Irena passa alla storia come l’unica velocista (maschi compresi) ad aver detenuto in contemporanea i record mondiali dei 100, 200 e 400 metri. Nemmeno gli uomini sono riusciti a generare un Numero Uno dello sprint e pure della «corsa che uccide», i 400. Irena ha avuto curiosità, coraggio. Acume, anche. Quando l’elasticità dei suoi muscoli non era più quella della prima gioventù, a Montreal 1976 si sfidò proprio nei 400. E vinse l’oro, il 3º della sua storia, al quale vanno assommati 2 argenti e 2 bronzi in 5 diverse specialità. Un argento arrivò dal lungo a 18 anni, 6,60 a Tokyo 1964, misura ancor oggi non facile da agguantare. La sua versatilità è nascosta nei numeri: 100 in 11’’13, 200 in 22’’21, 400 in 49’’28, lungo a 6,67. È stato un cancro a portarla via. Ma è vietato dire che ha perso l’ultima battaglia. Lascia una storia grande, due figli, una carriera impeccabile da membro del Cio, sempre elegante come nella sua corsa regale.