la Repubblica, 30 giugno 2018
Viaggio nel quartier generale di Giorgio Armani
Quando la moda è sussurrata, anche le pareti, i pavimenti, i pilastri e l’ultima delle rifiniture degli edifici che la ospitano, parlano a bassa voce. O almeno così accade nel quartier generale di Giorgio Armani di via Bergognone a Milano, nella sinfonia di grigi diversi: brillanti, brutalisti, opachi, minimalisti. Resi chiari, scuri, scurissimi da giochi di luce e ombra. A interromperla solo la facciata gialla con orologio dell’ex fabbrica della Nestlé, una lettera dell’alfabeto per distinguere ogni palazzina. L’atmosfera è quella rarefatta di un quadro metafisico di De Chirico o di Gattaca – La porta dell’universo, il film futurista che, guarda caso, aveva i costumi di Armani, solo che qui il monocromo è una firma, il varco verso un cosmo di creatività.
Visitando il complesso con il Silos, gli uffici, lo show room, il teatro progettato dall’architetto giapponese Tadao Ando e la strada pubblica che li divide, ridisegnata da Armani in accordo con il Comune, si coglie – forte – la ricerca quasi ossessiva di un’unità di stile. Persino i pochi dipendenti che abbiamo incontrato in pausa nel cortile, erano in tinta unita da capo a piedi e neanche si sentivano, come se l’estremo nitore dei luoghi scoraggiasse clamore e colori sgargianti.
La ricerca di rigore, sobrietà e controllo definisce ogni spazio. Lo stilista che con i tagli netti, il greige (non colore tra grigio e beige) e le giacche destrutturate ha contribuito a cambiare il nostro modo di vestire spiega: «L’ordine è importante per me come segno di coerenza e l’unità di stile è la base dell’armonia. In famiglia avevo l’esempio di mia madre che non era semplicemente ordinata. Era organizzata e questo ha reso più facile e scorrevole la nostra vita anche nei momenti difficili del primo dopoguerra». Il designer piacentino che agisce per sottrazione in un continuo processo di purificazione e perfezionamento, continua: «Per lei, non si trattava solo di “sistema questo”, “metti via quello”, tipico delle madri, ma di riuscire a vivere con semplicità e sobrietà i vari momenti della giornata. Queste caratteristiche che ho ereditato, si sono accentuate negli anni, mi hanno guidato nella mia professione e nella creazione di un’estetica che ha come tratto distintivo linearità e pulizia, ma non sono elementi imprescindibili per la mia creatività che ha bisogno di equilibrio per esprimersi perché porta ordine nel disordine delle impressioni e delle sensazioni».
Il manifesto della filosofia armaniana è ben sintetizzato nel Teatro di Tadao Ando, spazio modulare con un corridoio lungo cento metri, scandito da colonne quadrate che non toccano il soffitto candido mentre, sul fondo, una vela di calcestruzzo, aerea e inclinata, si apre nel foyer di quello che è – a seconda dell’uso – sala proiezioni, spazio espositivo o per spettacoli. Ogni tre mesi è la cornice di ogni fatica sublimata in sfilata: «La mia sensibilità nel trattare i materiali mi ha spinto verso Tadao Ando, è incredibile la sua capacità di rendere il cemento armato un segno etico, estetico, intellettuale». E poetico: nella giungla di geometrie chirurgiche, nell’affaccio zen sullo specchio d’acqua che regala quiete anche nelle giornate concitate della fashion week, quando giornalisti e fotografi aspettano di accomodarsi su una delle 558 ambite poltroncine. E furbo, nel camminamento segreto sul prato verde che fa apparire in prima fila e poi sparire attori, sportivi, star e principesse.
Per tuffarsi in un bagno di colori, paillette, lustrini e ricami basta attraversare la strada dove non c’è più la sosta selvaggia di un tempo, ma aiuole, alberi e pietra fossena (grigia, naturalmente), un contributo di Armani alla riqualificazione del quartiere. Nel Silos, «un punto fermo, il riassunto di oltre quarant’anni di lavoro», oltre allo spazio espositivo, c’è l’archivio delle collezioni Giorgio Armani e Giorgio Armani Privé. Grazie a un sistema di catalogazione, tavoli touch screen e un’area proiezioni, visitatori e studenti possono approfondire gratuitamente ogni sfaccettatura dello stile Armani, chiaro anche nell’ideazione dei volumiche ha supervisionato: l’area del sito industriale dismesso rispetta la natura del luogo e «uniforma gli elementi per appianare le disparità», senza orpelli né estremismi, coerente con la passione per il razionalismo del suo artefice: «L’estetica razionalista delle grandi fabbriche, dove la funzionalità plasma lo spazio, è quella più vicina al mio sentire. In tutti i luoghi che ho curato, ristrutturato e arredato mi sento a mio agio perché rispecchiano la mia personalità. Lì mi sento sempre a casa».