La Stampa, 30 giugno 2018
Davide Van De Sfroos: «San Siro mi aveva messo in crisi, sono rinato rifugiandomi nei boschi»
«Un anno fa, dopo il concerto di San Siro, sono andato in crisi. Ero in difficoltà con il mondo della musica: la sovraesposizione fine a se stessa non mi interessava. Per mesi non ho più toccato la chitarra. Non sapevo più chi ero e cosa stavo facendo. Mi sono ritirato nei boschi e sono riuscito a setacciarmi molto bene». Sulla copertina del libro Le parole sognate dai pesci, appena ripubblicato da La nave di Teseo in una versione ampliata, c’è il suo nome d’arte: Davide Van De Sfroos. Quello che si racconta con la nitidezza di cui solo gli scrittori sono capaci però è Davide Bernasconi, uno che ha portato l’epopea di Sandokan sul palco di Sanremo ma che a 53 anni spesso trascorre la notte a guardare il Lago di Como e la luna dalla finestra, fedele alle sue inquietudini come un ragazzino.
Sono stati mesi difficili. Quando è tornato a suonare?
«A gennaio ho accompagnato un gruppo di studenti ad Auschwitz e Birkenau. Dopo la visita ai campi di sterminio siamo tornati a Cracovia e i ragazzi mi hanno chiesto di fare qualche canzone per loro. Avevo paura ma ho capito che ne avevamo tutti bisogno. Dopo aver visto l’orrore e la morte volevamo celebrare la vita. Anche i professori saltavano sui muri. Rientrato in Italia ho suonato in una miniera in Valmalenco, dentro la roccia. Avevamo tutti un elmetto in testa. È stata un’emozione fortissima. Se San Siro era stata un’esplosione questa era un’implosione, una rinascita. Questa’estate giro con uno show a dimensioni ridotte: chitarra, voce e violino. E ci sarà sempre un ospite».
Uno dei primi album dei De Sfroos, il gruppo con cui è iniziata la sua carriera, si intitolava Manicomi. In tutto il suo lavoro ci sono tanti riferimenti al tema del disagio psichico.
«A 40 anni dalla legge Basaglia sono stati fatti passi da gigante. Io nei centri di terapia e riabilitazione psichiatrica ci sono stato e posso dire che sono luoghi di accoglienza. La cosa più importante, parlando di depressione, ansia, attacchi di panico e fobie, è imparare a non nascondersi. La psicoterapia e i medici possono fare miracoli. È come avere la tosse o il diabete: bisogna farsi aiutare».
In questi giorni fa la spola fra Mezzegra, il paese dove vive con la moglie e i tre figli, e la Valtellina. C’è qualche progetto legato alla montagna?
«Sto filmando e raccogliendo immagini e testimonianze sul territorio lombardo. Viaggio per conoscere ancora di più la mia terra, che è la mia acqua. Questo materiale finirà anche in un nuovo libro di 15 racconti che uscirà a breve. Si intitolerà Ladri di foglie e sarà una microcosmologia delle persone che ho incontrato, un libro di sussurri, aggrappato ai particolari. Le foglie vivono e crescono, poi a un certo punto cadono ma nessuno le va a rubare perché sembrano avere poco valore. In questo momento sono il mio totem».
Molti protagonisti dei suoi racconti e delle sue canzoni sono persone che ritornano a casa dopo essersi perse. Come mai?
«Voglio comprendere il popolo degli spaesati, quelli che non sanno bene dove andare, che si sono ritrovati orfani dei paesi, delle comunità. Gente ostinata che è tornata a fare lavori manuali che sembravano destinati a sparire come ciabattini, muratori e contadini, universitari che d’estate salgono in alpeggio ad allevare le capre, sindaci che lottano per tenere vivi i loro Comuni. Dal boom economico degli Anni Sessanta a oggi ci sono stati tanti progressi positivi - penso all’emancipazione delle donne - ma anche poca attenzione per quello che stavamo perdendo, o peggio buttando via: l’artigianato, l’erboristeria, la lentezza, il dialetto. Quand’ero bambino la maestra mi sgridava se lo parlavo, oggi mi chiamano nelle scuole a insegnarlo. L’identità è anche memoria. In provincia sta succedendo qualcosa di importante. In città magari lo si nota meno».
Qualcuno ha dato una lettura delle ultime elezioni come di una ribellione della provincia e delle periferie contro i «salotti» delle città. La provincia è la culla del populismo?
«La parola populismo è un po’ come buonismo. Quando c’è di mezzo il suffisso -ismo le cose buone diventano un problema. Popolo è una parola fortissima che ti fa pensare alla parte migliore di un Paese, al suo scheletro, ai suoi muscoli. I politici fanno leva su quello che il popolo vuole per essere eletti, senza preoccuparsi del fatto che sia o meno realizzabile. Poi quando governano e provano a fare qualcosa sembra che emerga un altro popolo, diverso da quello che li ha eletti, che li vuole mandare a casa. E subito si inizia a parlare di nuove elezioni. Quest’elastico mi mette in crisi, non lo comprendo. Mi sembra che ci siano due Italie. Ma forse sono solo io che sono molto ingenuo».
Il ministro dell’Interno Matteo Salvini conosce a memoria tutte le sue canzoni. Come vede la fase politica attuale?
«Sono molto turbato dalla politica che leggo ogni giorno sui giornali, mi angoscia. Mi pare che chi sale al potere sia più interessato alla lotta ideologica che al bene comune. Io sto male per le persone che non hanno più una terra e che si ritrovano su un’isola galleggiante in mezzo al Mediterraneo ma anche per chi viene aggredito nel salotto di casa da chi vuole rubargli i pochi soldi che ha in tasca. Non ho ricette in tasca, non sono un leader politico. Mi sento più uno sciamano, un medico dell’anima. Il mio lavoro è una lunga marcia nel mio territorio e nell’Italia intera come Gengis Khan in Mongolia: provo, nel mio piccolo, a rimettere insieme i tasselli».