La Stampa, 30 giugno 2018
Addio a Domenico Losurdo, l’ultimo dei baroni rossi
Non c’è (più) gusto a dirsi comunisti oggi in Italia, per parafrasare una nota massima. E, invece, di gusto ne trovava ancora molto Domenico Losurdo, che si è spento ieri. Uno studioso significativo nel panorama (desertificatosi) del pensiero marxista e neomarxista, il quale interveniva con costanza e spirito militante nella discussione pubblica, come pure in quella intra moenia al mondo politico che si richiamava al comunismo dove venne accusato da alcuni «ultra-ortodossi» di essere addirittura un «liberal-trotzkista». Per la verità, la cultura politica e filosofica del liberalismo ha rappresentato proprio il bersaglio principale e la bestia nera di molta della pubblicistica e della produzione editoriale di Losurdo, che si è appunto mantenuto fedele al marxismo-leninismo, con una spiccata simpatia per l’idea maoista della «pluralità della lotta di classe» (non soltanto quella del movimento operaio, ma anche quelle degli altri «soggetti subordinati», dalle donne alle popolazioni terzomondiali colonizzate).
Nato nel 1941, si era laureato con Pasquale Salvucci all’Università di Urbino, dove si svolse prevalentemente la sua carriera accademica di professore di Storia della filosofia e dove ha diretto l’Istituto di scienze filosofiche e pedagogiche. Il suo lavoro si è concentrato nei settori della storia delle idee e delle dottrine politiche, con una forte predilezione per una lettura politica del pensiero filosofico. Losurdo ha compiuto una rivalutazione dell’idealismo tedesco (Hegel e la libertà dei moderni, 1992). Si è dedicato al pensiero nietzscheano quale manifestazione intellettuale per antonomasia dell’aristocraticismo antidemocratico (Nietzsche. Il ribelle aristocratico, Bollati Boringhieri, 2002), collocandolo sullo sfondo del suo contesto storico, quello di un Ottocento giudeofobo, imperialista e colonialista e ossessionato dall’eugenetica, ma non occultandone, al medesimo tempo – in quella che era la sua ambiguità costitutiva – la carica dissacratoria e demistificante. E ha studiato il suo erede Martin Heidegger (La comunità, la morte, l’Occidente, Bollati Boringhieri, 1991), riconducendolo al grumo dell’irrazionalismo tedesco primo-novecentesco dell’«ideologia della guerra», che lo porterà così naturalmente ad abbracciare il nazismo e a fare dell’antisemitismo uno dei nuclei duri e strutturali della sua filosofia.
Fiero avversario del postmoderno, ha soprattutto studiato il marxismo (da Lukacs a Gramsci), insistendo sulla distinzione tra uno «occidentale» e uno «orientale»; e ha difeso il materialismo storico, riproponendo nei suoi lavori la «metodologia» della dialettica e la lotta di classe (La lotta di classe, Laterza, 2013) come andamento e movimento hegeliano dello scontro tra il riconoscimento e il disprezzo dell’altro (al cui riguardo ha elaborato i concetti di «despecificazione politico-morale» e «naturalistica»). E ha effettuato una critica radicale, e totale, della cultura politica liberale (Controstoria del liberalismo, Laterza, 2005), condotta su un piano di prassi ancor più che di teoria, ravvisandovi tutta una serie di «peccati originali» (dalla non opposizione di John Locke allo schiavismo nelle colonie al social-darwinismo) da cui, secondo Losurdo, scaturiva la matrice del male per eccellenza dei secoli XIX e XX, il colonialismo.
Da cui anche la critica della nozione di totalitarismo di Hannah Arendt considerata come troppo «generale», per arrivare sino a punte inusitate quali la riabilitazione dello stalinismo, nella cui condanna leggeva la creazione di una «leggenda nera» volta a screditare tutto il movimento comunista – una tesi che lo contrapponeva frontalmente al revisionismo storico liberale di François Furet, ma anche (e ancor più) a quello estremamente ambiguo – e che si occultava dietro il nazionalismo – di Ernst Nolte.