Corriere della Sera, 30 giugno 2018
«Corro per correre, scrivo per scrivere ma se scrivo è (anche) perché corro». Il caso di Chiara Marchelli
«Correre mi ha dato il ritmo perfetto, la disciplina mentale, l’alternanza tra movimento e scrittura che hanno permesso che io scrivessi questa guida come in un lungo respiro». Chiara Marchelli, docente di italiano e scrittura creativa alla New York University, romanziera (Le notti blu, pubblicato da Giulio Perrone editore, lo scorso anno è stato tra i 12 candidati al Premio Strega), è l’autrice di un volume agile e intrigante: New York. Una città di corsa (stesso editore). Che offre almeno tre chiavi di lettura: un atto d’amore verso lo sport più semplice da praticare, una guida ai luoghi meno conosciuti della Grande Mela e, soprattutto, una riflessione su quanto il processo creativo abbia a che fare con fiato e sudore.
Il pensiero va subito a Murakami Haruki, ovviamente abbondantemente citato. Ma è affollato l’universo degli scrittori che hanno provato a svelare questo legame naturale eppure ogni volta sorprendente. Anche Chiara Marchelli è una runner, non ama fare gare né maratone ma assapora il piacere passo dopo passo, esattamente come quello di mettere una parola dietro l’altra. «Io corro per correre. Io scrivo per scrivere», sintetizza.
La corsa come valvola di sfogo e fonte di ispirazione. «Tra le tante cose di cui è fatta, c’è anche questo: è una forma di meditazione. Correndo mi vengono in mente persone da contattare, storie da scrivere, scene del passato che credevo sepolte». E allenamento alla resistenza. «Continuare anche quando credi di non farcela più». Vale pure quando si lavora a un testo. Ricorda le parole della scrittrice statunitense Joyce Carol Oates: «I problemi strutturali in cui mi imbatto scrivendo in una lunga, ingarbugliata, frustrante e talvolta disperante mattinata di lavoro riesco generalmente a districarli correndo nel pomeriggio».
Per Chiara Marchelli il luogo ideale per «disincagliarsi» da dubbi e problemi è Highland Park, un’area verde poco battuta tra Brooklyn e Queens. «Correre qui significa spesso essere l’unica, soprattutto nelle giornate di pioggia. Quando è così la sintonia con la natura è talmente profonda che diventa una sorta di immedesimazione». Un approccio comune a molti autori. Don DeLillo, ad esempio: «Lavoro circa 4 ore e poi vado a correre. Questo mi aiuta a scrollarmi di dosso un mondo ed entrare in un altro. Alberi, uccelli, pioviggine: è un bell’interludio».
La corsa come scoperta del mondo che ti circonda. Il libro è anche una mappa ragionata di angoli e locali insoliti, in particolare quelli amati dagli artisti. Come Fort Greene a Brooklyn dove abitarono John Steinbeck e Truman Capote, ma anche Patti Smith e Spike Lee, oppure Park Slope, «il primo quartiere dove si sono concentrati gli scrittori americani contemporanei», Paul Auster, Jonathan Safran Foer, Nicole Krauss. Ma anche ritrovi come l’Hungarian Pastry Shop dove va a scrivere Nathan Englander, o The White Horse, la taverna del Village dove ci si poteva imbattere in Jack Kerouac, Ezra Pound o Allen Ginsberg.
La New York (sportiva) non è solo quella del Central Park o del Reservoir intitolato a Jacqueline Kennedy visto mille volte al cinema (quello de Il maratoneta con Dustin Hoffman, per intenderci). Bisogna avere la curiosità di cambiare strada, di osare, non sapendo che cosa si troverà dietro l’angolo. «Correre a Manhattan, o a New York in genere (come in qualsiasi altro luogo), è una delle poche esperienze che permettono di farci sentire davvero parte del tessuto della città», osserva Marchelli. Così sono l’arte e la letteratura. Conoscenza e sfida. Anche con se stessi. Per dirla con Murakami: «Sfinirti al massimo entro i tuoi limiti individuali: questa è l’essenza della corsa, e una metafora della vita. E, per me una metafora anche della scrittura».
Conclude Marchelli: «Io, nello scrivere e nella corsa, trovo da sempre una somiglianza e una corrispondenza che hanno fatto sì che io non possa fare l’uno senza l’altra, o essere una cosa (scrittrice) senza l’altra (corridore)».