Corriere della Sera, 30 giugno 2018
Sul terrazzo di Raffaele La Capria
La casa di Raffaele La Capria, lo scrittore che la sua concittadina napoletana Maria Ortese definì, azzeccandoci piuttosto bene, il «giovane Swann» della nostra letteratura e di Ilaria Occhini, l’attrice che stregò con la sua eterea bellezza generazioni di italiani, si trova appena il sotto cielo terso di Roma, alla stessa altezza delle cupole delle sue chiese tra il Pantheon, l’elefantino di Piazza della Minerva, e sopra la sede dell’Associated Press. Gli inviati dell’agenzia americana più prestigiosa non sanno che questo signore pronto ad accoglierci all’ascensore col bastone e la giacca in panama chiara, è il decano dei romanzieri italiani. «Assomiglio a un personaggio di Gabo Marquez? No, per carità – si schernisce Dudù, come lo hanno sempre chiamato gli amici più cari, tra i quali Goffredo Parise e Alberto Moravia —, e poi i sudamericani hanno scritto quello che noi europei avevamo provato nei secoli precedenti...».
Dovrebbero salire con noi, aspettare che il vassoio di paste portatogli in dono sia depositato sul tavolino in legno pittato a mano dell’ingresso, e soprattutto varcare la parete riempita interamente da Meridiani della Mondadori che dà accesso al salotto e al tempo stesso biblioteca dove l’autore di «Ferito a morte», il capolavoro dell’autore partenopeo nato nel 1922, scrive e incontra gli amici: in autunno uscirà «Il fallimento della consapevolezza» in cui sono contenute lettere scambiate con l’amico Patroni Griffi. «Questa casa la prese mia moglie Ilaria quando ci eravamo appena fidanzati, io fui subito conquistato dalla luce impattante che la invade, tale chiarore è un mito del mio mondo mentale. Talvolta è così forte che ancora non riesco a raccapezzarmi. Io non sono condizionato dalla sacralità dei luoghi dove il genio si esprime, non sono fanatico di una certa scrivania, però della luce ho bisogno, immette nella mia persona una florida vitalità e fa fuggire la malinconia».
La Capria mostra i quadri in stile impressionista risalenti agli anni Venti appesi alle pareti, i dolcissimi ritratti familiari, il necessaire ottocentesco ereditato dal nonno possessore di mulini: «È il poco di quanto è rimasto dalla classica caduta in disgrazia in cui erano solite incappare le famiglie meridionali vissute prima nello splendore, che poi hanno dissipato. Sopra ci ho messo alcuni uccelletti artificiali che certi giorni – prosegue lo scrittore mentre il gatto Nemo gli giocherella in grembo – faccio cantare, frutti essiccati intrecciati di corda come giocose bombe a mano e tanti ricordi di spiaggia».
Già, il mare è presente, reale. Nei discorsi, nelle perce- zioni di La Capria e anche materialmente in questa casa. «Ci sono i sassi raccolti in tanti arenili perché rispondono a un’idea estetica della letteratura: la scrittura è simile a una spiaggia, le parole debbono essere essenziali, levigate come i sassolini che la corrente fa rotolare. Il mare è nella mia testa – dice Raffaele —, al punto che quando sale quassù il rumore delle automobili immagino sia il suono delle onde. E poi mi raggiungono spesso i gabbiani. Sto in ascolto, ma non riesco ancora a comprendere il messaggio che mi portano. Comunque il frastuono che odo dalla strada non mi dispiace: lo chiamo il dannato caos, quello al quale la narrazione poi mette ordine».
La Capria ci porta sul terrazzo per farci odorare le ortensie, i limoni e soprattutto i vasi di piante aromatiche e i gelsomini fioriti che tappezzano la parete. Ci sediamo sotto un pergolato ricoperto dalla vite. «Le piante ci rammentano a ogni fioritura il miracolo dell’esistenza, così come gli animali ci ricordano che siamo tutti insieme sbattuti nella vita, galleggiamo nel medesimo pentolone: mi piacciono soprattutto i gatti per la loro indipendenza e menefreghismo. Li ho sempre avuti, anche quando ero ragazzo a Posillipo, e abitavo nel seicentesco Palazzo Donna Anna, al pianterreno, in pratica una prua sul mare, dove vivevano tanti fantasmi: quando attraversavo i corridoi avevo bri-vidi di paura».
Mentre pronuncia queste cose, si aprono d’improvviso le porte del salotto. E si sente Ilaria ridere nell’altra stanza.
Sono i libri, comunque, gli oggetti più cari e più presenti in questo attico romano affacciato sulla cupola attorcigliata di Sant’Ivo alla Sapienza. Sbucano da ogni angolo, fanno capolino persino dal gazebo in muratura in cui culmina la terrazza fiorita.
«Sono circondato dalla letteratura che conta, Tolstoj, Dostoevskij, le novelle di Cechov, e naturalmente la Recherche del sublime Proust, i libri eterni, sempre giovani». Non poteva che concedersi appunto così, un giovane Swann.