Tuttolibri, 30 giugno 2018
La favola nera della “Saponificatrice di Correggio”, che uccideva le vicine e le trasformava in dolci per la festa
La saponificatrice di Correggio. Anche chi – in un’epoca in cui la cronaca nera riempie le pagine dei giornali e diventa racconto in tanti programmi tv – non ha mai sentito questo nome, basterà pronunciarlo ad alta voce per percepirne l’eco magica, oscura, da favola nera che subito si spande da quest’etichetta. La saponificatrice di Correggio, ufficialmente la prima serial killer italiana, che ha ispirato tanto cinema, teatro, musica e letteratura, è una figura ben al di fuori degli schemi criminali a cui siamo abituati, e trascende persino la sua stessa biografia, per legarsi alla Storia italiana. La studia Barbara Bracco, docente di Storia contemporanea nell’Università di Milano-Bicocca, nel saggio La saponificatrice di Correggio, in cui non solo racconta la storia della saponificatrice, ma la inserisce nel contesto socio-culturale in cui la donna è vissuta con dolore, ha ucciso, è morta. Ne vien fuori il ritratto di una donna, una criminale, certo, un’efferata assassina, colpevole a tutti gli effetti e senza dubbio, ma anche vittima sacrificale di un rito di passaggio, quello dalla guerra alla pace, dalla monarchia alla repubblica, dal nazi-fascismo alla libertà.
I fatti. Il 12 giugno 1946 inizia il processo a Leonarda Cianciulli – vero nome della saponificatrice –, accusata di triplice omicidio, rapina e distruzione di cadavere. Accusato di averla aiutata, suo figlio Giuseppe, a difesa del quale, ad apertura del dibattimento, Leonarda dirà: «Fatemi linciare dalla folla, ma fate uscire mio figlio che è innocente». L’amore di Leonarda per i figli sarà una costante della vicenda di questa donna e, a detta di Filippo Saporito, illustre psichiatra e luminare del manicomio criminale di Aversa dove Leonarda verrà rinchiusa, il vero motore degli efferati omicidi. Efferati, perché?
Perché, tra il 1931 e il 1941, Leonarda Cianciulli convinse tre donne di Correggio, dove si era trasferita dal Sud insieme alla famiglia, a consegnarle i loro beni con l’inganno. Poi le attirò in casa, le uccise, le disarticolò «come si fa con i polli» e le disciolse in soda caustica per farne del sapone. Con le ossa ridotte in polvere e il sangue, fabbricò dei dolci e li diede da mangiare ai suoi parenti. O almeno questo fu ciò che dichiarò. E, nonostante per l’accusa il movente, lampante, immerso nel degrado e nella povertà del tempo tra le due guerre e in quello dell’inizio della seconda, furono i soldi – soldi che, dichiarò lei, servivano per i figli, per farli mangiare, per farli studiare – la motivazione dell’omicidio data dalla Cianciulli fu un’altra. Sua madre l’aveva maledetta per aver sposato un uomo diverso da quello che lei desiderava. Una zingara le aveva predetto che tutti i suoi figli sarebbero morti. Tredici ne erano morti davvero, tra aborti spontanei e morti in culla. Gli ultimi rimasti, sarebbero potuti morire in guerra. Dunque lei, basandosi sulla Bibbia ma anche su Teti, figura della tragedia greca che vuole rendere invulnerabile il figlio, uccise tre donne come sacrificio, per aver salvi i suoi tre figli maschi. Da un lato seguendo perfettamente lo stereotipo della donna del sud strega, dall’altro sconvolgendo i crismi della morale comune che voleva la donna mite, fragile e sottoposta all’uomo. Poiché con forza definita maschile, tutta sola – o almeno questo fu quanto disse lei – dissezionò i corpi delle donne e se ne sbarazzò, trasformandoli in cibo e in sapone. E ancora una volta la Storia s’intreccia con la storia, poiché il sapone, al tempo, era un bene di lusso, ma soprattutto poiché la trasformazione in questa sostanza ricorderà ai più le orribili pratiche naziste.
Dopo anni passati nel manicomio criminale di Aversa, un memoriale di oltre settecento pagine intitolato da lei stessa Quaderno di un’anima amareggiata, una lunga stasi tra la fine dell’istruttoria e l’inizio del processo data dal passaggio dalla fine della guerra alla nascita della repubblica, e un lungo processo, la Cianciulli verrà condannata come unica colpevole e passerà la vita in manicomio, fino alla vigilia della scarcerazione, fino alla morte avvenuta poco prima della liberazione. E rimarrà per sempre, nell’immaginario dei più, «una perfetta favola nera per la neonata repubblica italiana». La racconta e la svela Barbara Bracco in questo saggio approfondito, ricco di testimonianze e spunti, capace di vedere ben oltre il mito della saponificatrice arrivato sino a noi, ben oltre le dicerie di cui fu intrisa l’intera vicenda, ben oltre la distinzione manichea tra bene e male, colpevoli e innocenti, consegnandoci generosamente gli strumenti per esercitare il nostro giudizio, e aver voglia di studiare ancora.