il Giornale, 30 giugno 2018
Duchamp il burlone si prendeva gioco delle interpretazioni dei critici d’arte
Nel suo celebre saggio Interpretazione e sovrainterpretazione Umberto Eco definisce i limiti di ciò che possiamo leggere o meno in un’opera d’arte, ossia cosa è intenzionale e cosa no. Perché il rischio è quello che accade quando vediamo forme nelle nuvole: magari una nuvola sembra un elefante, ma è solo un nostro errore percettivo, che ci porta a vedere significati ovunque.
Quella nuvola non è un elefante, resta solo una nuvola, siamo noi a non rassegnarci all’assenza di significato delle cose (fenomeno analogo a chi vede immagini sacre nelle bruciature di un toast). Tuttavia, a differenza delle nuvole, le opere d’arte sono intenzionali. E Eco distingue tre intenzioni: l’intentio auctoris, l’intentio operis, e l’intentio lectoris. C’è un’intenzione dell’autore, una dell’opera e una del lettore, ma per avere un’interpretazione bisogna farle quadrare insieme.
Per quanto possa sembrare strano, una delle opere d’arte su cui si sono sbizzarriti critici e studiosi non è un dipinto dai significati alchemici come può essere un quadro di Giorgione, ma un orinatoio: il readymade che Marcel Duchamp realizzò (anzi scelse) nel 1917, e che ha cambiato per sempre la storia dell’arte. Lo chiamò Fountain (Fontana) e lo firmò neppure con il suo nome, ma «R. Mutt».
Ebbene, i critici ci hanno visto di tutto. Alcuni osservarono come il nome della firma, pronunciato alla tedesca, potesse alludere alla povertà (Armut). Maurizio Calvesi richiamò la forma dell’orinatoio alla dea madre degli antichi egizi, notando che posponendo la R la firma poteva far pensare alla parola Mutter, madre (vai a capire perché Duchamp dovesse poi sempre usare il tedesco). Ognuno ha detto la sua, per decenni.
In realtà Duchamp chiarì che il nome gli era venuto in mente da un fumetto molto di moda all’epoca, Mutt & Jeff. «Ma Mutt mi sembrava troppo poco, quindi aggiunsi Richard. Ma Richard mi sembrava troppo, quindi misi solo R., R. Mutt». Fine della storia. Fine? Non per i critici.
Al riguardo è appena uscito un saggio molto interessante di Maurizio Cecchetti, Note per la manutenzione di Marcel Duchamp (Edizioni Medusa), dove si richiamano, si analizzano, si confermano o si contestano molti veri o presunti significati legati alle opere di Marcel Duchamp. Sempre sul famoso orinatoio, si propone anche il significato di orinare sulla propria madre, addirittura rifacendosi a un dipinto di Lorenzo Lotto che probabilmente Duchamp non ha mai visto. «Lotto affronta un soggetto mitologico ben noto ma con un’iconografia più unica che rara», scrive Cecchetti, «ed è lecito chiedersi se Duchamp l’abbia avuta presente quando ha elaborato Fountain». È lecito chiederselo, ma rispondo io: no, e se anche l’avesse avuta presente, non ha importanza, anzi. L’orinatoio non è una figura femminile, come lo Scolabottiglie (readymade del 1914) non è l’albero di Buddha.
Nel 1998 mi laureai con una tesi su Marcel Duchamp proprio per smentirne le sovrainterpretazioni, vagliando centinaia di materiali, saggi, scritti, interviste, fino a rendermi conto di una cosa: tutti questi significati (alchemici, simbolici, mitologici) tolgono significato all’opera di Duchamp (danno solo senso ai critici che per campare devono sovrainterpretare). Basta d’altra parte andarsi a sentire le parole dello stesso Duchamp, che ha spiegato e rispiegato fino alla nausea cosa non intendeva dire. E basta soffermarsi su quello che in realtà ha fatto: espandere il linguaggio dell’arte a qualsiasi mezzo, renderla puro pensiero, azzerare il valore del manufatto in quanto fatto a mano («Si possono fare opere che non siano d’arte? Si possono non usare le mani?»), una rivoluzione. Senza di lui non ci sarebbe stata la Pop Art, l’Arte Concettuale, Beuys, Kossuth, Piero Manzoni, neppure Damien Hirst o Maurizio Cattelan, insomma tutta l’arte contemporanea.
Per carità, Duchamp sull’equivoco dei significati scaturiti dalle sue opere ci ha sempre marciato, prendendosi gioco dei critici. Quando gli chiesero ragguagli su un’interpretazione di Rosalind Krauss rispose: «Ne ha dette tante». Ma quindi cosa sono i readymade? «Un punto di vista che voglio stabilire molto chiaramente» disse Duchamp, «è che la scelta di questi readymade non fu mai dettata da un qualche diletto estetico. Questa scelta era fondata su una reazione di indifferenza visiva, unita allo stesso tempo a un’assenza totale di buono o cattivo gusto, di fatto un’anestesia completa». Specificò anche il metodo usato: «Bisogna arrivare a scegliere un oggetto, se si vuole, con l’idea di non essere impressionati da questo oggetto, secondo un diletto estetico di nessun tipo. È dunque difficile scegliere un oggetto che non vi interessi assolutamente e non soltanto il giorno in cui lo scegliete, ma per sempre, e che non abbia mai nessuna possibilità di diventare bello, carino, gradevole da guardare, oppure brutto». Tutti i readymade di Duchamp seguono questo criterio, sebbene alla fine siano diventati fondamentali. Ma non per i significati che gli si danno, piuttosto per quelli che non hanno.
D’altra parte perfino la vita di Duchamp è stata continuamente interpretata, come il suo aver lasciato l’Europa durante la prima guerra mondiale e gli Stati Uniti durante la seconda, quando questi entrarono in guerra. Si pensò che fosse un pacifista. Eppure, anche qui, a domanda rispose: «Pacifista io? No, la verità è che me ne fregavo completamente».