Corriere della Sera, 29 giugno 2018
Il caso del tribunale di Bari e lo Stato senza Stato
Immaginare uno Stato senza Stato non è poi così difficile. Basta guardare in direzione di Bari. Qui, per effetto di una fatale dissolvenza, lo Stato ha perso un suo simbolo, il Tribunale, e una sua primaria funzione: la giurisdizione. Nel giro di qualche mese, mentre nel Paese si cercavano gli equilibri possibili per un nuovo governo, e secondo alcuni si saltava da una Repubblica all’altra, due perizie tecniche hanno dichiarato il Tribunale, inteso come sede, «inidoneo» dal punto di vista strutturale, in altre parole candidato al crollo; il sindaco ne ha firmato l’inagibilità e lo sgombero entro novanta giorni; il presidente di Regione, su richiesta dei magistrati, ha reso possibile il trasferimento anticipato degli uffici in una tendopoli; e il neo nominato ministro, preoccupato per l’effetto-terremoto che l’accampamento giudiziario faceva nella nuova Repubblica, ha infine smantellato anche questo, decretando d’urgenza la sospensione tout court di tutti i processi penali. Tranne quelli per terrorismo e mafia, se ne riparlerà a ottobre.
A giudicare dai fatti, tutti, dal sindaco al ministro, hanno agito per evitare il peggio. O meglio, come si dice a Bari: per togliersi dalle mazzate. Tutti si sono assunti un pezzo, ma solo un pezzo, di responsabilità. E alla fine il peggio ha vinto su tutti, perché il risultato ultimo sarà quello del caos dopo le macerie.
I n mancanza di una decisione drastica, quale poteva essere un decreto non per sospendere la giurisdizione ma per trasferire immediatamente gli uffici altrove, più pezzi separati e timorosi dello stesso Stato non sono riusciti a fare uno Stato intero. Quasi una metafora della vicenda italiana. La soluzione invece trovata è provvisoria e probabile: una sede a Modugno, incapace di contenere tutti gli uffici e che tutti si augurano possa essere sostituita con un’altra più funzionale, per la quale il ministero ancora continua la ricerca.
Una giustizia ritardata è una giustizia negata, ammoniva Montesquieu. Ma a Bari il quadro è ancora più nero: è quello di una giustizia prima evacuata, poi accampata, allagata e infangata dagli acquazzoni, quindi nuovamente sfrattata e infine dispersa con la promessa di un prossimo ritorno all’ordine. Una giustizia nel frattempo non amministrata, con tutto ciò che questo comporta per i diritti di tutti: di chi accusa e di chi si difende. Fa pensare, poi, che ciò avvenga nella cosiddetta era del cambiamento e nella Regione del nuovo presidente del Consiglio: in continuità con una storia che è iniziata (male) nel 2002, quando il Tribunale di Bari fu posto sotto sequestro perché ritenuto abusivo; è continuata (peggio) nel 2015, quando il ministero della Giustizia non pagando il fitto si è reso moroso; e ha sfiorato l’assurdo (se non la farsa) a ogni apertura dell’anno giudiziario, quando i magistrati ogni volta segnalavano crepe alle pareti e sinistri scricchiolii nel Palazzo del Tribunale e ogni volta a Roma nessuno raccoglieva.
Ora il ministero parla di danni relativi: i casi di sospensione sarebbero in numero esiguo. Ma avvocati e magistrati, sommando quelli attualmente all’attenzione dei pm e dei giudici delle varie fasi, ne contano circa centomila. Una bella differenza! In più, se e quando sarà finalmente trovata una nuova sede (e si teme l’ipotesi «spezzatino», cioè più edifici, anche fuori Bari) bisognerà comunque ripartire con i processi, rimettendoli nei ruoli dai quali sono stati cancellati, e riprovvedendo alla notifica di tutti gli atti. Il che fa dire a molti che se ogni cosa andrà per il verso giusto ci vorranno almeno dieci anni per recuperare la normalità. In un Paese più volte maglia nera in Europa per la lunghezza dei processi, e che è arrivato fino a 140 mila sentenze di prescrizione in un anno, non è una bella prospettiva. Con o senza pena finale, il processo è già una pena. A partire da Bari, se questa è l’antifona, rischia di diventare una pena senza fine.