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 2018  giugno 29 Venerdì calendario

Il rischioso spoils system nei ministeri

A quasi un mese dal suo insediamento, il nuovo governo M5S-Lega ha comunicato molto, ma prodotto poco, approvando finora un solo decreto legislativo e un paio di decreti legge. C’è però un aspetto importante, ma meno evidente all’opinione pubblica, su cui l’esecutivo si sta muovendo con celerità e decisione: il ricambio degli alti funzionari dei ministeri. Utilizzando il cosiddetto spoils system, in vari dicasteri, soprattutto a guida leghista, sono state preannunciate entro i 90 giorni previsti dalla legge le sostituzioni dei capi di gabinetto e di dipartimento, cioè le posizioni agli apici delle amministrazioni, a diretto contatto con i ministri.
Ma è davvero giusto e opportuno che, all’inizio di un nuovo mandato, i titolari dei ministeri abbiano la possibilità di circondarsi di alti funzionari di loro scelta, non solo nelle posizioni strettamente fiduciarie, come i capi delle segreterie o della comunicazione, ma anche ai vertici delle strutture amministrative? Non rischiamo così di creare una schiera di funzionari «targati» politicamente, selezionati per la loro fedeltà allo schieramento o al singolo esponente di partito, che subentrano a ogni cambio di colore politico? Lo spoils system introdotto in Italia dalla legge Frattini del 2002, poi modificata dalla Corte Costituzionale, che ne ha ridotto la portata, emula il modello americano, in cui a ogni cambio di amministrazione un ampio numero di posizioni viene assunto da persone scelte dal nuovo presidente. Negli Stati Uniti però esiste un oliato sistema di «porte girevoli»: chi rimane fuori dall’amministrazione per un mandato, tipicamente lavora in un think tank, in attesa di rientrare al giro successivo, coltivando nel frattempo le sue competenze. Da noi non è così: chi viene scartato finisce spesso nel sottobosco politico, con il compito di garantire potere e risorse alla sua parte, non di studiare come governare meglio al prossimo turno.Spesso accusati di essere una casta conservatrice – si pensi agli attacchi ai «mandarini» del primo Renzi – i capi di gabinetto e di dipartimento hanno un ruolo essenziale nella macchina del nostro Stato, come negli altri Paesi europei; in molti casi lo svolgono con efficacia, anche se li si vorrebbe più in autonomia, anche a fronte dei tanti e talvolta assurdi vincoli burocratici. Da un lato, sono gli esecutori della volontà politica, guidando l’amministrazione in modo da rendere effettive le scelte – non di rado vaghe e mal formulate – di governo e Parlamento: in una fase di transizione come l’attuale, che vede l’entrata in scena di ministri con poca o nulla esperienza, sono l’unica garanzia di continuità di governo in momenti cruciali per la vita delle famiglie come, per fare un solo esempio, il buon inizio dell’anno scolastico. Dall’altro, avendo sovente essi stessi redatto leggi e regolamenti, sono i depositari delle conoscenze legislative e amministrative stratificatesi nel tempo: chi ha deciso di fare a meno delle loro competenze è spesso incorso in errori o ingenuità, come nel caso della Buona scuola.
Anche se non siamo ai livelli della mitica scuola d’amministrazione francese, la selezione dei vertici ministeriali – attraverso la Scuola nazionale dell’amministrazione o concorsi interni – è severa e meritocratica, anche se ancora troppo orientata alle competenze giuridico-amministrative; soprattutto, a differenza dei gradi inferiori, i grand commis mantengono l’orgoglio di lavorare per lo Stato, non per il singolo politico. 
Fino a oggi, nessun nuovo governo ha cambiato in modo sistematico i funzionari di vertice, pur avendone i poteri. Se l’attuale continuerà su questa strada, dando piena attuazione allo spoils system, il volto della nostra amministrazione sarà destinato a cambiare profondamente, con una maggiore dipendenza dalla politica.