Avvenire, 29 giugno 2018
Peggy Guggenheim e la Biennale del 1948 riscrisse il ’900
In un modo o nell’altro, l’Italia dell’immediato dopoguerra sembra sempre inadeguata a portare il suo fardello di nazione vissuta sotto il giogo ventennale di una dittatura. Pochi anni fa, un direttore della Biennale di Venezia, il nigerianoamericano Okwui Enwezor, dopo aver ripercorso i soliti luoghi comuni che si appellano all’autorità critica di Benjamin, si lanciò in un paragone azzardato e, soprattutto, carente di cultura storica: l’Italia subito dopo la guerra «rimase in silenzio riguardo al fascismo», mentre nella sua prima edizione Dokumenta a Kassel nel 1955 «sfruttò l’occasione per esaminare il retaggio degli abusi politici dell’arte sotto il Terzo Reich negli anni del nazismo». A Enwezor sarebbe bastato conoscere quanto acceso fu il dibattito fra il 1944 e il 1948 intorno all’arte che scopriva l’astrattismo da un lato e dall’altro si impantanava nelle questioni ideologiche legate al diktat di Togliatti (che firmava con lo pseudonimo Roderigo, corsivi al veleno contro Guttuso e compagni) e del Pci da cui ben presto gli stessi artisti che operavano nell’avanguardia presero le distanze. È soltanto il caso di ricordare una frase di Guttuso che spiega tanti limiti nel rinnovamento del rapporto fra arte e pubblico dopo la guerra: «Creare nuovi consumatori in sostituzione della vecchia classe dominante».
Quanto è urticante, oggi, questa parola, consumatori, che individua gli schiavi della società capitalista oggi dominante, dove consumare è il “secondo lavoro” di tanti di noi per tenere vivo il metabolismo di una società fondata sulla coppia dialettica produzione-consumo. Vero è, come scriveva trent’anni fa Giorgio De Marchis, che nel 1948, l’anno della prima edizione della Biennale di Venezia dopo la pausa imposta dalla guerra, «dei grandi temi politici e civili, dell’impegno sociale praticamente non si parla più». Se n’è parlato forse troppo negli due o tre anni precedenti, con il desiderio di rinnovare linguaggi e contenuti dell’arte italiana, come grande occasione da non perdere. Ma come sempre in Italia lo scontro fra guelfi e ghibellini è la singolar tenzone che sfocia nel nulla di fatto. O, addirittura, che contraddice le premesse di quella stessa disputa.
Il 1948 è anche l’anno in cui alla Biennale, nel padiglione messo a disposizione da una Grecia provata dalla guerra, sbarca dall’Atlantico Peggy Guggenheim per mostrare la sua collezione di artisti dell’avanguardia (l’allestimento è di Carlo Scarpa). Non so se sia vero che grazie a quella presenza la Biennale divenne per la prima volta internazionale, come si dice nelle note che accompagnano la mostra presso la stessa collezione veneziana della signora Guggenheim; facendo un rapido censimento delle mostre personali e di gruppi nazionali che animarono quella edizione, il risultato credo vada attribuito a una commissione di critici e studiosi che diedero un’impronta ben più ampia da quella rappresentata dalla straordinaria collezione di Peggy. Vediamo un po’. Tra le mostre speciali c’è quella curata da Longhi sugli Impressionisti e quella sulla Metafisica, curata da Arcangeli; personali di Kokoshka, Chagall, Klee, Picasso (presentato da Guttuso, che però metteva in guardia dal manierismo picassiano che si sta diffondendo in Italia e in Europa), l’omaggio ad Arturo Martini (morto l’anno prima); nel padiglione francese ci sono Rouault, Maillol e Braque; in quello inglese Turner e Moore; in quello austriaco Schiele e Wotruba, in quello tedesco un confronto fra realisti ed espressionisti tedeschi (Dix, Pechstein, Hofer, Schmidt-Rottluff).
È una Biennale “classica” a suo modo, che vuole riaprire i battenti in gran pompa ma, come scrisse De Marchis, «sostanzialmente non fornì quasi nessuna indicazione nuova sullo stato e sulle direzioni evolutive della ricerca artistica». Esattamente il contrario di quello che la mostra ora presentata alla Collezione Guggenheim vuole rivendicare (la misura è molto celebrativa e la mostra un cammeo pensato con foto, documenti e un modellino dove vengono mostrati al visitatore gli spazi del padiglione greco con le opere appese alle pareti e disposte nello spazio). Se non ricordo male – nel comunicato informativo che accompagna la mostra, si citano soltanto Read, Arp, Ernst – a presentare la mostra di Peggy fu Giulio Carlo Argan, che nel 1946 aveva attaccato duramente Picasso per Guernica e nell’anno della Biennale sulla rivista “Ulisse” sposò l’arte astratta contrapponendo alla linea che ha come ispirazione l’angst, l’angoscia esistenziale, le componenti che lanciano «il messaggio di un nuovo ottimismo, auspicano la gioia di una vita più autentica che proprio la presenza dell’arte garantirebbe al mondo». Argan sostiene che «il mondo che diventa vuoto, deserto di forme e di colori, non è un segno di disperazione e di morte della coscienza». Insomma, rispetto all’esistenzialismo dell’informale che coglie lo stato d’animo di una Europa distrutta dall’odio e dalla guerra, Argan sembra guardare altrove, e Peggy Guggenheim con la sua vasta e articolata collezione doveva essere lo spunto ideale per esprimere l’ottimismo della volontà pur senza abbandonare il pessimismo della ragione.
Fra i visitatori del Padiglione allestito dalla signora Guggenheim ci fu anche Bernard Berenson, non troppo incline per gusto all’arte astratta e moderna, il quale fu capace, però, di gettare un’aura classica su Pollock vedendo nei suoi teleri qualcosa di analogo agli arazzi. E si può credere senza difficoltà alcuna al giudizio che all’epoca venne dato di questo Padiglione come il più straordinario di tutti quelli allestiti in quella edizione a Venezia. Oltre a Balla, Severini, De Chirico e Campigli, Peggy aveva in collezione opere di Arp, Brancusi, Calder, Ernst, Giacometti, Malevic, Baziotes, Pollock, Rothko e altri.
I conti di quella Biennale però tornano, e mostrano in controluce l’alternativa italiana a quella linea artistica e al suo linguaggio “moderno” vincolato a una sensibilità plasmata dalla storia di quel secolo, in quanto artisti “inattuali” e “antichi”. Valutando la mostra di Peggy del 1948 si scopre, per esempio, che il mito di Duchamp non era ancora nato, un mito davvero americano che esploderà dopo gli anni Cinquanta, quando l’artista, fra l’altro, prenderà la cittadinanza statunitense. Inizia allora, già postumo alle prime esperienze dell’espressionismo astratto, il secolo americano dell’arte. Secolo breve, se non addirittura brevissimo, di cui l’apoteosi mercantile di artisti di oggi come Jeff Koons, è il ritardatoconatusdi un tempo che va a finire.