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Silvia Colasanti: «Dirigere un’orchestra è un ruolo di potere»
Maestro o maestra? «Sono contro i nomi ostentatamente al femminile, contano le persone, mi chiamano maestro e va benissimo. Sarà anche di moda, ma sindaca suona malissimo», dice Silvia Colasanti, 43enne compositrice di musica contemporanea che stasera (domenica la replica al Teatro Menotti) apre il Festival di Spoleto con Minotauro. Nel 2013 Napolitano la fece Cavaliere, nel 2017con Mattarella fu Ufficiale della Repubblica. « Vuol dire che il merito conta ancora qualcosa», mormora l’artista di fronte al caffè nel bar sotto casa di Roma San Giovanni. «Spoleto mi ha dato tanto», conferma. «Tre anni fa ho fatto Tre risvegli; nel 2017 il Requiem per le vittime del terremoto; quest’anno Minotauro, ispirato a una novella di Friedrich Dürrenmatt da cui René De Ceccatty ha tratto il libretto».
C’erano 2500 persone per il Requiem al Duomo; ha ragione Salvatore Accardo: «La musica di Silvia Colasanti arriva al pubblico, emoziona per primi noi che la suoniamo».
Quando nasce il suo amore per la musica?
«Prestissimo, ho cominciato a studiare pianoforte a sei anni, ma quasi subito ho capito che avrei voluto scrivere, raccontare qualcosa con i suoni».
Un percorso che richiede disciplina e dedizione, soprattutto perché, insieme, ha frequentato il conservatorio e il corso di laurea in filosofia.
«Siamo l’orgoglio dell’Italia, è una nostra prerogativa esplorare la storia con tanta dedizione. Solo studiando il passato si ha la consapevolezza della propria identità».
È quello che cerca di trasmettere nella sua attività didattica al Conservatorio di Benevento? Il lavoro di docente è diventato ingrato, bullismo e arroganza finiscono troppo spesso in cronaca.
«Non nei conservatori. Quello musicale è un percorso voluto, c’è un clima di grande collaborazione e di confronto. Siamo artigiani, lo dico sempre ai miei allievi, Schönberg ci paragonava ai falegnami» .
Solo avanguardie nella sua formazione?
«Le musiche del Novecento rispecchiano inquietudini e contraddizioni dell’adolescente, le ombre che il romanticismo celava e che sono poi diventate protagoniste. Mi affascina il percorso che va da Schubert a Mahler fino all’espressionismo di Berg e Henze; ma anche Ligeti, che è il più classico del secolo scorso — modernissimo ma in grado di parlare a tutti. Ma poi sono andata a ritroso: quanta bellezza ci arriva ancora da Monteverdi!».
Compositrici e direttori donne sono più rare delle quote rosa in politica.
«“Le maestro” sono ancora poche per la verità, non solo per discriminazione ma per scelta.
Persiste un retaggio culturale che vuole il direttore d’orchestra, che ha un ruolo di potere, legato a una figura maschile. Sta a noi donne crederci e dimostrare il contrario.
Tuttavia ci sono direttrici in teatri importanti, come la nostra Speranza Scappucci, le finlandesi Susanna Mälkki e Kaija Saariaho, l’inglese Rebecca Saunders, la russa Sofia Gubaidulina, una pioniera».
Si è formata in anni in cui la musica operistica era stata data per morta. Deve essere stato mortificante per chi ci scommetteva una carriera.
«Non mi sono fatta scoraggiare.
Ovviamente l’opera ha bisogno di contemporaneità, non stiamo qui a far copie di linguaggi che non ci appartengono più. L’avanguardia ha dato moltissimo, non possiamo non far tesoro delle conquiste…».
…E qui arriviamo alla sua formula…
«…Produrre un’opera che non ignori la drammaturgia della grande scuola, la passione raccontata in musica, ma utilizzando il dizionario del presente. L’estetica presuppone regole e principi, ma senza dogmatismi e ideologie, tutto deve essere usato a fini espressivi».
Le sue opere sono state eseguite ovunque del mondo: le pare che l’Italia sia rimasta indietro rispetto ad altri paesi?
«Vero solo in parte; è da sfatare l’idea che le cose funzionino bene solo all’estero. Abbiamo artisti che tutti ci invidiano, anche giovani come la pianista Beatrice Rana o il Quartetto di Cremona. Quanto alle nostre istituzioni invece, poche nuove produzioni, si tende a diventare museo per attrarre turisti, troppe Aida e Traviata — in questo siamo trascurati, e nell’istruzione, ridotta a un livello vergognoso».
Il grande equivoco è aver ridotto la musica classica a oggetto di speculazione commerciale. Impossibile che si autofinanzi, a differenza del pop fa difficoltà a essere veicolata dai media.
«Questo sì è un problema di politica culturale tipicamente italiano.
Si cerca di livellare intrattenimento e cultura, una divisione che invece la politica dovrebbe tenere ben presente. La musica classica richiede un pensiero articolato, non può essere banalizzata con un tweet».
Il più grande sacrificio?
«La solitudine, che è condizione necessaria per chi studia musica.
Ma anche faticosa per una come me che ha bisogno degli altri, che vuole ricavarsi tempo da dedicare ai figli (di 4 e 6 anni, ndr) e a un marito».
Quando arriva l’ispirazione molla tutto, stacca il telefono e resta sola con lo spartito?
«L’ispirazione è un’idea molto romantica, io parlerei di creatività: un tarlo che non mi molla mai».
Niente ascolti leggeri, canzoni? jazz?
«Non sono un’onnivora della musica. Preferisco approfondire che spaziare».
E se un artista pop le proponesse una collaborazione?
«Preferisco il teatro, m’incuriosisce il cinema d’autore. Il pop? Oddìo, dipende dall’artista…».