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 2018  giugno 29 Venerdì calendario

Pietro Citati è uscito a fare due passi con Dostoevskij e Nabokov

Pensatori, predicatori, santi e uomini politici, re e regine, musicisti e scrittori, naturalmente molti scrittori. La galleria, ancora una volta, è affollatissima; Pietro Citati muove, nella storia della cultura, il suo cursore magico – dalle grandi narrazioni bibliche, «folte e congestionate», ai romanzi sperimentali del Ventesimo secolo. Si ferma spesso, per via di ammirazione, a esplorare la testa di qualcuno come un paesaggio: Francesco d’Assisi, Montaigne, Oliver Sacks. Pedina, per le strade di una città, Cervantes e Sigmund Freud.
È un libro — Il silenzio e l’abisso (Mondadori) – in cui si cammina parecchio: tanto per smentire la convinzione che chi scrive sta fermo. «Mentre insegue il personaggio in fuga, il narratore ricorre a ogni specie di testimonianze indirette, tra le quali i libri del fuggiasco e i propri ricordi, non meno enigmatici di questi libri»: Citati sta parlando di Nabokov e forse anche un po’ di sé, dei suoi metodi di inseguimento. Quanto ai ricordi, nel caso, sono i ricordi di un iperlettore, le sue lunghissime fedeltà: «Ho un grande affetto per Michel de Montaigne. Come Flaubert, anch’io lo chiamerei mon père nourricier ». Ma fare un ritratto di Citati à la Citati non è impresa facile, benché non sia preciso dire – come spesso si è fatto – che il critico-scrittore si nasconda dietro ai libri di cui parla. In verità, dal primo volume miscellaneo, Il Tè del cappellaio matto, di quarantasei anni fa, a quest’ultimo, Il silenzio e l’abisso, Citati non si limita a lasciare la propria firma in un angolo del quadro. Il suo volto è sempre come riflesso in qualche specchio, o confuso nella folla; è lo sguardo di uno sguardo di uno sguardo (gli occhi di Molière visti da Bulkagov visti da Citati). Un po’ come nel gioco dei “coperti” di Lorenzo Lotto, che Citati spiega in un capitolo appassionato ( Tutte le tarsie narrative erano protette da altre tarsie): in una imprevista connessione, in un collegamento, in un intreccio, anziché celarsi, all’improvviso il narratore di narratori si rivela. Mise en abyme, verrebbe da dire, tanto più che l’abisso, stavolta, è chiamato in causa fin dal titolo. E tra il silenzio e l’abisso cosa? Le parole. Tutti i personaggi di Citati, i personaggi che diventano suoi, hanno compiuto lo stesso sforzo. Diventare una storia. Trasformarsi, talvolta quasi letteralmente, in un racconto.Vale per l’autore del Lieh- tzu e per Maometto, vale per Lorenzo de’ Medici e per Robespierre. Vale per un attacchino austriaco diventato Hitler – la cui giovinezza è raccontata in pagine ipnotiche – e vale per l’esploratore norvegese Erling Kagge. Uno che si mette in cerca del silenzio assoluto e, cercandolo, tocca tre mete impervie: il Polo Sud, una cima dell’Everest, il Polo Nord, che raggiunge nel maggio del 1990 «assieme a un altro esploratore, dopo aver trascorso cinquanta giorni con una temperatura inferiore a meno 54 gradi Celsius, bruciando quasi tutte le riserve corporee di grasso. Il giorno dell’arrivo al Polo, passò per caso sopra di loro un aereo da ricognizione americano: i piloti rimasero sorpresi nel vederli, e pieni di compassione verso i due esploratori, certo accecati dalla fame, gettarono loro un contenitore pieno di cibo». Quell’aereo squarcia il silenzio, ma nel frattempo Kagge è diventato un racconto. Non è casuale che Citati apra con il Libro della Sublime Virtù del Cavo e del Vuoto, conosciuto anche come Trattato del Vuoto perfetto — il testo taoista elaborato trecento anni prima di Cristo – e chiuda con un libro intitolato al Silenzio, scritto duemila anni dopo. «Quando ha raggiunto questa condizione, il saggio conosce la beatitudine del Vuoto – col quale il Tao coincide. Sebbene tutti esaltino la perfezione del pieno, egli sa che il segreto del mondo riposa sul vuoto».
Come per evocare la perfezione del vuoto, così per evocare l’assoluto del silenzio, gli umani non possono che servirsi di pieni e di segni. Una delle suggestioni più forti del vasto racconto per tessere di Il silenzio e l’abisso si gioca su questo eterno e commovente paradosso: per Citati, è anche una questione “privata”. Lo sforzo, che segna una vita, di cogliere quel momento supremo, «doppio, tenebroso e luminoso», di afferrare e tradurre in parole quell’attimo di rivelazione metafisica e mistica, l’armonia, o la grazia, da cui muove l’ispirazione.
«All’improvviso il cervello si accendeva e tutte le forze vitali si tendevano in uno slancio straordinario. In quei brevi istanti, lo spazio di un lampo, le sensazioni e la coscienza di sé decuplicavano. Una luce illuminava l’intelligenza e il cuore»: vale per Dostoevskij, nella sezione che gli è dedicata; e per chiunque azzardi la sfida di riempire, con una storia, l’immane non detto fra silenzio e abisso.