la Repubblica, 29 giugno 2018
Preghiere e tecnologia nella grotta dei ragazzi prigionieri in Thailandia
Sembra un paradosso ma non c’è un clima di tragedia attorno alla grotta boscosa del nord della Thailandia dove da 5 giorni e sei notti sono intrappolati dodici ragazzini tra gli 11 e i 16 anni con il loro allenatore e maestro di vita. Forse è l’effetto del primo giorno di sole dopo tanta pioggia che portava via la speranza. O forse le continue preghiere, condotte a ridosso della bocca di Tham Luang da monaci con la mascherina al viso venuti da città e montagne lontane, accompagnati dalla fama di domatori degli spiriti ai quali tutti, soccorritori inclusi, credono fermamente come credono nel potere del Buddha.
Di certo i genitori vogliono credere mentre ascoltano il ministro dell’Interno che illustra le nuove buone possibilità che si aprono dopo quasi una settimana senza cibo. Dice che ci sono due vie per rintracciarli, una dall’alto facendo un foro nella roccia spessa per far passare almeno una telecamera forse in grado di vedere l’interno della grande grotta a 3 km dal cuore del complesso di caverne di Tham Luang dove dovrebbero trovarsi i dispersi. È una rete di passaggi e cunicoli estesi per 7 chilometri da un lato e 10 dall’altro non simmetrici.
L’altra possibilità è quella che sembra più pratica, ma neppure il ministro spiega perché non sia stata considerata prima: aprire una valvola di sfogo al grande fiume sotterraneo Nam Kon che, dove non ha trovato ostacoli, ha provocato pericolosi crolli, normali dentro questa natura vergine circondata di boschi tropicali. Perfino i coraggiosi sommozzatori della marina thai hanno dovuto rinunciare più volte a immergersi nel cunicolo colmo d’acqua e fango di 3 chilometri e senza visibilità che li divide dal centro delle grotte, e da lì per altri 3 dalla cavità più grande, l’unica possibile dimora di salvezza per i ragazzi.
È un posto chiamato con ironia “La spiaggia”, o Pattaya beach del nord per l’aspetto balneare creato dal corso sotterraneo. Una volta i sub sono stati respinti dal fiume in arrivo con un’ondata cosi potente da rischiare di farli sbattere contro le pareti e distruggere le bombole di ossigeno. Da quel momento le soluzioni alternative sono state cercate coi droni, per scoprire cavità esterne e possibili segni di vita dai rilevatori del calore corporeo, e con ispezioni sul terreno fatte senza una precisa conoscenza dei luoghi. Molti ufficiali in incognito dicono che avrebbero dovuto chiedere aiuto alla gente che viene qui a raccogliere erbe e funghi e conosce ogni anfratto. «Ma poiché è proibito, nessuno si fa avanti».
Dopo le piogge che hanno alimentato il fiume ora chiuso tra le rocce (forse la notte appena trascorsa è bastata ad aprire un primo varco) la tregua solare di ieri si è interrotta con nuovi scrosci. Bastava osservare i volti delle madri, i loro sguardi alla montagna, per capire che il loro inchino con il wai a mani giunte di molte di loro al ministro non era un segno di convinzione, ma solo una delle tante forme di rispetto di questo popolo che sorride anche quando vorrebbe piangere. Al termine di questa giornata che secondo il governatore della provincia di Chiang Rai doveva essere decisiva, il colonnello dell’esercito Singha Ravat dice che le speranze di ritrovarli vivi sono 50 e 50. I 12 piccoli calciatori e il loro maestro non sarebbero dovuti andare in un posto così temibile di questa stagione, e sono stati sorpresi dal veloce innalzamento delle acque. Va da sé che non c’erano controlli in questo luogo dove adesso sono giunti 1300 tra poliziotti e militari, senza contare la folla di giornalisti.
La recita dei sutra buddhisti rende l’atmosfera surrealmente calma nel trambusto di fumose trivelle e idrovore a gasolio, camion, soldati e volontari. Pochi giorni fa, alla prima alba dopo la notte dell’incubo, una delle madri era andata all’imbocco della grotta principale e aveva gridato con tutto il fiato che aveva in corpo.
«Torna fuori figlio mio. Io ti aspetto qui». Poi è tornata a sedersi e non si è più mossa per 5 giorni. Parenti e genitori non hanno una parola di rimprovero per quello che è probabilmente il maggiore responsabile della gita, il coach Ekkapol Janthawong, un giovane uomo sempre sicuro di sé. Nella parole del padre di un altro disperso, il 12enne Mongkol («E chi poteva dirgli niente? Quando Ekkapol chiamava, tutti correvano», ci dice) c’è la venerazione dei “cinghialetti” come si chiamavano tra loro per questo giovane insegnante dedicato al team con il quale condivideva oltre al calcio anche la bici di montagna, il rafting, insomma tutti quegli sport di azione che tenevano lontano i “suoi” atleti dalle droghe che circolano ovunque dal nord al sud del regno, e qui siamo a due passi dal confine birmano dove si producono le metanfetamine chiamate yaba. Abbiamo chiesto a diversi parenti se avevano qualche rimorso nell’aver lasciato i ragazzi venire qui dopo l’allenamento, e non tutti sapevano che sabato scorso i ragazzi erano diretti alle grotte della Donna dormiente, com’è nota la montagna per la leggenda di una principessa che fu uccisa per ordine del padre re. Tutti conoscono la leggenda, credono negli spiriti, eppure non temono questi luoghi, e alcuni come i 13 dell’Accademia dei Cinghiali di Mae Sai venivano a trovarci lo spirito di gruppo per una vittoria che è la prova del coraggio di chi diventa grande. Una prova eccessiva come pensano adesso tutti, anche se non lo dicono.