La Stampa, 29 giugno 2018
Il sussidiario del calcio
Adem Ljajic, centrocampista del Toro e della Serbia, ai mondiali non ha cantato l’inno nazionale; Ljajic è un bosgnacco, un musulmano d’origine bosniaca, e nella guerra di Jugoslavia quelli della sua etnia e della sua religione furono sterminati dagli ultranazionalisti serbi, e io rispetto tutti, ha detto, ma prima ancora rispetto me stesso. Il calcio non è solo sport, è narrativa. Granit Xhaka e Xherdan Shaqiri, campioni svizzeri, hanno segnato proprio contro la Serbia e hanno esultato mimando l’aquila a due teste, simbolo nazionale albanese; Xhaka e Shaqiri sono originari del Kosovo, ex provincia serba a maggioranza albanese non riconosciuta dalla Serbia. Il calcio è politica. L’allenatore dell’Iran, Carlos Queiroz, è molto amato dai suoi giocatori anche perché ha ottenuto il perdono per alcuni di loro, sacrileghi per aver giocato contro squadre israeliane; e da Gerusalemme il premier Benjamin Netanyahu ha incitato gli iraniani a ispirarsi al loro portiere, Alireza Beiranvand, che ha parato un rigore a Cristiano Ronaldo, e niente è impossibile, nemmeno ribellarsi al regime di Hassan Rohani. Il calcio è la profonda storia del mondo. Un assessore di Berlino di Afd, il partito di destra, dopo l’eliminazione della Germania ha scritto che ai prossimi Mondiali vuole «di nuovo una squadra veramente tedesca»; ce l’ha con la formazione multietnica, che quattro anni fa in Brasile sbaragliò tutti, ma adesso gli stranieri sono i colpevoli della sconfitta; è sempre colpa del diverso, come era colpa degli ebrei per la sconfitta nella Prima guerra mondiale. Il calcio siamo noi e i nostri mostri che tornano.