Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2018
India, è lenta l’ascesa della classe media
Ha un sapore originale l’espresso Monsooned Malabar del Karnataka. «Giù al Sud i grani vengono esposti per un paio di mesi all’umidità del monsone. In questo modo perdono acidità», spiega Siddhant, tornato a Delhi con una laurea alla Bocconi e un’esperienza di espressi e moka accumulata nei bar attorno all’università.
Quanto al caffè come business per Siddhant Keshav è una questione di famiglia. La Devans Coffee & Tea esiste da circa 60 anni. Aveva incominciato il nonno a comprare caffè e foglie di tè nel Kerala e nel Karnataka, due stati indiani del Sud e a esportarlo. Ma al giovane bocconiano questo non bastava. Così nel centro di Nuova Delhi, al Khanna Market, ha aperto un piccolo ed elegante bar nel quale vende caffè macinato ma soprattutto serve espressi e cappuccini dopo una preparazione che stupirebbe il Gambrinus di Napoli. Ugualmente il tè è preparato in un modo sconosciuto a qualche centinaio di milioni d’indiani abituati a farselo servire per strada dai chaiwala. Anche Narendra Modi, il primo ministro, da bambino era stato un chaiwala. Il padre aveva un chiosco nella stazione di Vadnagar, nel Gujarat, e quando non era a scuola Modi vendeva tè ai viaggiatori. Quell’India c’è sempre ma sta cambiando visibilmente: non con la rapidità cinese, ma cambia.
Siddhant, che prima di servire spiega da dove vengono e come sono coltivate le foglie e a quale temperatura deve arrivare l’acqua, fa parte di quella sconfinata generazione che nonostante le difficoltà e gli squilibri del paese, è convinta che in India domani sarà meglio di oggi. Quei giovani che stanno moltiplicando la classe media del paese. L’automazione crescente ne cambierà il volto: fra quattro anni il 9% della forza lavoro sarà impiegata in attività che ancora non esistono e il 34 in lavori che richiederanno una preparazione radicalmente diversa. Intanto almeno fino al 2030 ogni mese un milione di giovani entrerà nel mercato del lavoro. Tre anni fa Hotstar non esisteva: oggi 150 milioni di utenti sono abbonati all’equivalente indiano di Netflix per vedere un film in streaming. A marzo le prime cinque case produttrici del paese hanno venduto 240.850 auto: ogni mese aumentano del 10/15%. Il quotidiano economico Mint spiega che a giugno saranno 478 milioni gli indiani che hanno un’utenza mobile collegata con internet: 22 milioni più che nell’intero 2017 quando già ci fu un aumento del 17% sul 2016.
È in questa varia natura di prodotti e di consumatori che si rivelano i confini della classe media indiana, un soggetto sociale ed economico che è studiato dal 1991, quando iniziarono le grandi riforme economiche. Se si parla di numeri, l’India ha da offrirne una quantità sconfinata. In un certo senso i numeri sono il suo brand: il 40% della popolazione vive al di sotto della linea di povertà o rischia di ritornarvi; nonostante lo smartphone sia una storia di successo, due terzi della popolazione continua a non avere accesso a Internet. Ma gli indiani sono un miliardo e 300 milioni e anche una classe media relativamente piccola è un numero enorme di consumatori. L’80% della popolazione ha un reddito inferiore al Pil pro capite di 1.700 dollari, ma il 20% che resta comprende 260 milioni d’individui. Secondo Hsbc saranno 550milioni in pochi anni. McKinsey li ha definiti “bird of gold”. «Sostanzialmente siamo ancora una nazione povera», chiarisce Javed Sayed, vicedirettore esecutivo di Economic Times. «Se le imprese straniere vogliono puntare a questo mercato devono fare come le indiane: pensare a prodotti dal basso costo ma dagli alti volumi, come hanno dimostrato il successo dell’auto popolare Maruti, dello smartphone a 1.500 rupie (neanche 19 euro, ndr) prodotto da Reliance, dei farmaci accessibili a quasi tutti in un paese dove non esiste un servizio sanitario nazionale».
Esiste dunque in India qualcosa che assomigli a una base sociale capace di dare stabilità e una direzione alla crescita? Secondo l’Economist, in un’inchiesta a gennaio che aveva sollevato molte polemiche, no: quella indiana è una “missing middle class” e il mondo si sbaglia se crede che il paese possa ripetere gli stessi numeri fenomenali cinesi. Ma l’errore è continuare a considerare la Cina come la nemesi indiana. Parlare di fallimento perché in India aprono uno Starbucks, un Domino’s Pizza o uno Zara al mese (in Cina ogni 15 giorni), è sbagliato. Perché i centri decisionali della democrazia indiana sono molteplici e ogni cambiamento richiede tempo e consenso. Rispetto alle riforme economiche, Martin Wolf del Financial Times definisce i cinesi una «popolazione motivata».
Gli indiani invece vanno convinti. Inoltre la Cina ha sempre avuto una dimensione imperiale, da che esiste crede di essere una naturale superpotenza politica ed economica. L’India no, fino ad ora. La sua forza era di conquistare i cuori di chi la conquistava e oggi continua ad essere una superpotenza riluttante: numericamente il suo corpo diplomatico è inferiore a quello della Nuova Zelanda e di Singapore. Obor, il grande progetto economico cinese, vuole costruire strade, ponti e porti in tutta l’Eurasia. Quello di Modi è casalingo: «Make in India».