il Giornale, 29 giugno 2018
L’Islanda verso il collasso. «È colpa di Justin Bieber»
«Non si sente più parlare islandese per le strade, è un suicidio, altro che Venezia. Quest’estate sarà la mazzata finale», dice Edward Hujbens, professore di geografia umana a Reykjavík. È la famosa invasione dei turisti in Islanda, lo scorso anno 2,5 milioni di arrivi in un’isola abitata da 346mila persone. La previsione è che entro ottobre si superino i tre milioni, uno tsunami. Le entrate dal turismo, circa 10 miliardi di dollari nel 2017, sono diventate la prima voce del Pil, doppiando quelle dalla pesca, una sciagura per l’identità nazionale, una benedizione per le casse dello Stato dopo il crac finanziario seguito alla crisi del 2008.
Per gli islandesi è stato un decennio folle, in linea con il loro carattere spregiudicato dettato da una natura così creativa da incastrare i vulcani dentro i ghiacciai. Prima della crisi era il terzo paese più competitivo al mondo, reddito medio 65mila dollari l’anno. La chiamavano la «Tigre Boreale». Solo vent’anni prima era il Paese più povero d’Europa, un luogo conosciuto solo come avamposto americano della Guerra Fredda. Eppure l’Islanda è l’unico angolo del pianeta a non aver mai conosciuto l’analfabetismo, i vichinghi arrivarono con un libro sotto il braccio. Tutti parlano l’inglese, ma sono in grado di leggere le saghe islandesi scritte mille anni fa da Erik il Rosso in persona. L’unione degli scrittori conta 400 iscritti, 40 gli autori tradotti nel mondo. Una nazione fiera della propria condizione geo-culturale, che ha prodotto grande letteratura e grande musica (Björk, i Sigur Ròs per citare le star globali) attingendo alla mistica dell’isolamento e della solitudine. Poi è venuto il crollo, conti in banca evaporati in una notte. Si è scoperto che erano tutti debiti, 160mila euro per islandese. Le Range Rover ribattezzate Game Over. Un intero paese pignorato. Finiti i week end a Parigi e New York, il via vai di aerei privati. Ma già nel 2012 l’Islanda rimette fuori le antenne per sintonizzarsi con la modernità, arrivano le start up, i ribelli del web come Julian Assange a fondare Wikileaks. Torna l’adrenalina, e l’Islanda cavalca l’affare del secolo, il cambiamento climatico che nel Grande Nord è un bicchiere mezzo pieno: l’Artico si scioglie, si scatena la corsa per la conquista delle risorse e delle nuove vie d’acqua, l’isola attira grandi interessi, soprattutto dalla Cina, che firma un accordo di libero scambio con Reykjavík, caso unico in Occidente. Con il riscaldamento climatico arriva la prima zanzara, ma anche una caterva di sgombri in fuga dalla Scozia e dalla Norvegia, dove le acque sono diventate troppo calde. Soprattutto il Nuovo Artico è diventato il Nuovo Esotico, la regione in cima alla lista dei tour-operator. Peccato che l’Islanda sia sempre stata una nazione nord-atlantica, girava le spalle all’Oceano polare, in islandese non esiste neanche la parola Artico, ciò che sta oltre la costa settentrionale lo chiamano Norðuríshafið, il mare ghiacciato del Nord. «Di colpo Artico è diventato un brand», dice Vilborg Einars, producer di molti spot di grandi marchi sui ghiacciai islandesi. «Ora tutto ciò che vuol dare il senso di contemporaneo e cool è Arctic, gallerie d’arte, catene d’hotel, ristoranti, alcolici, design, anche un marchio di fuoristrada si chiama Arctic Trucks».
Secondo Einar Torfi Finnsson, responsabile delle guide alpine, ci sono state quattro fasi prima dell’invasione: la svalutazione della krona dopo la crisi, l’apertura di alcuni voli low cost, l’esplosione del vulcano Eyjafjallajökull nel 2010 che ha offuscato i cieli di mezzo mondo ma anche scatenato la curiosità internazionale per l’Islanda. «E poi è arrivato Justin Bieber, è Justin Bieber che ci ha rovinati», dice Einar. La popstar canadese nel video I’ll show you, (450 milioni di visualizzazioni), si mostra mentre rotola sui licheni, si bagna nell’acqua dei ghiacciai in discioglimento, s’affaccia sul baratro tra le scogliere, dando l’idea che in Islanda si può fare un tuffo into the wild, dritti nel Pleistocene. «È stato l’inizio del disastro», conferma Rannaveig Olafsdottir docente di sociologia del Turismo a Reykjavík. «Non c’era nessun piano, nessuna infrastruttura, nemmeno bagni sufficienti. I porti non sono adeguati alle navi da crociera, e le navi non sono adatte a queste latitudini, è un groviglio d’irresponsabilità incrociate, prima o poi succede una tragedia. Tutta questa gente che arriva pensa di vedere l’ultimo scampolo di Natura selvaggia prima che sparisca, e così contribuisce a distruggerla». Le strade del cosiddetto Anello d’Oro, l’area dove si concentrano ghiacciai e vulcani sono intasate di pullman; solo fino a qualche anno fa, quando s’incontrava un’auto ci si salutava, era un avvenimento. I turisti calpestano muschi che impiegano 200 anni per crescere di pochi millimetri, defecano tra i licheni. Nella regione più assediata dalle comitive ci sono 10 poliziotti che devono garantire la sicurezza su quasi 40mila chilometri quadrati: «Non ce la facciamo, è un incubo», dice Kristjan Runarsson, il comandante: «Le auto finiscono fuori strada, qui basta una folata di vento per farti volare. Per scattare una foto da molti like su Instagram si piazzano su una scogliera e il vento spesso li sbalza. Non sanno che certe sabbie vulcaniche sono mobili, noi la chiamiamo l’onda del serpente, e vengono risucchiati».
Certo, molti villaggi abbandonati con la crisi della pesca e molte fattorie in decadenza tornano a vivere perché i giovani aprono ristoranti, attrezzano alloggi e avviano aziende per le escursioni. Gira tanto denaro. «Ma stiamo perdendo l’anima, il senso di essere islandesi in un mondo globalizzato, quello spirito che ci ha creati in qualche modo speciali e misteriosi», dice Edward, il professore di geografia: «La prossima vittima del Turismo nel Grande Nord sarà la Groenlandia, ma noi continuiamo a metterli in guardia. Non fate come noi, non costruite aeroporti, vietate l’uso di Instagram che è una peste, è peggio del napalm». Il nuovo governo della premier Katrin Jakobsdottir è indeciso se sviluppare infrastrutture e puntare sul turismo per fare cassa, oppure imporre delle quote d’ingresso, modello Venezia, per arginare un’onda che rischia di spazzare via la diversità islandese.