Il Messaggero, 29 giugno 2018
Dalì, e il surrealismo scese in passerella
In principio, fu una scarpa. Quella che il suo maestro di musica usava per picchiare, sul capo, gli studenti negligenti. E poi quella che portavano in testa, come cappello, le signore della Parigi bene di inizio Novecento e che lui, Salvador Dalì, aveva disegnato con l’amica Shiap, cioè la stilista visionaria Elsa Schiaparelli. Proprio quella, icona per eccellenza del legame strettissimo tra arte e moda del secolo scorso, «è altamente simbolica nell’opera del maestro. Non è solo un feticcio freudiano di sessualità, ma è anche un simbolo che unisce ricordi di infanzia ad ispirazioni sociali ed esoteriche, un oggetto che trascende il tempo e lo spazio». Così la studiosa di arte e moda americana Laura Whitcomb introduce il suo racconto di Dalì, frutto di lunghi anni di studi sull’opera artistica e le contaminazioni con il mondo della couture del maestro del surrealismo spagnolo.
CORONE DA RE
Whitcomb, che è stata curatrice presso la Fondazione Gala – Salvador Dalì a Figueres, in Spagna, e che nel curriculum ha anche una sua linea di abbigliamento e una galleria d’arte a New York, è al lavoro su un libro, che uscirà negli Stati Uniti il prossimo aprile, intitolato Dalì, the Paradox of Fashion, il paradosso della moda, spiega durante un incontro a Milano, è il rapporto di grande reciprocità tra i due: «Dalì era ossessionato dall’eleganza fin da bambino. Crescendo cominciò ad ammirare il grande potere della moda di cambiare le persone. Indossava corone da re, si faceva ritrarre con costumi visionari disegnati da lui stesso, come quello da Ermete Trismegisto, l’autore esoterico di tarda età ellenistica».
Nella moda Dalì ha cercato la comunicazione più profonda con il suo io interiore e ne ha fatto veicolo di espressione unico e poliedrico, spiega Whitcomb. Con una costante ossessione per il femminile e per la sessualità, mai discostata dal simbolismo esoterico (l’alchimia fu sua materia di studio per tutta la vita e la carriera), che emerge anche nella collaborazione più celebre, duratura e significativa che ebbe con la moda. Quella, appunto, con Elsa Schiaparelli: «L’abito aragosta (un abito da sera con il disegno enorme del crostaceo, ndr.) che indossò in alcuni celebri scatti Wallis Simpson, si chiamava Assalto alla verginità. Fu uno shock per il costume dell’epoca vedere indossato questo simbolo sessuale così forte dalla donna che aveva sedotto il re d’Inghilterra al punto da farlo abdicare».
LA GELOSIA DI COCO
Ecco dunque cosa facevano insieme Dalì e Schiap: «Ribaltavano lo status quo della società». E avrebbero stravolto, sostiene Whitcomb, anche quello del teatro, non fosse che la stilista coeva Coco Chanel era «gelosa dell’intellettualissima Elsa»: fu proprio Coco ad impedire che Shiaparelli collaborasse con Dalì a una serie di costumi per il Balletto Russo, a Parigi. «Ci lavorò il maestro da solo, a partire dal 1939, creando delle sagome oniriche, sorta di creature con grandi spunzoni da drago», la cui eco è evidente anche in designer contemporanei, primo tra tutti Gareth Pugh.
«L’idea era quella dell’esplosione, un concetto che Dalì riprese parzialmente poi per Luchino Visconti nelle scene e nei costumi della sua versione ballettistica dello shakespeariano Come vi piace, nel 1948, e poi anche per Dior: nel 1949 disegnò un abito che simboleggiava il dialogo con l’era nucleare, ispirato all’atomica di Hiroshima».
La scienza, cioè il progresso dell’alchimia, e la perduta spiritualità degli scienziati, fu il successivo terreno di studi del maestro: «Diresse a quel punto la sua attenzione verso la geodetica e la meccanica quantistica», racconta Whitcomb. I risultati nel mondo del fashion sono almeno tre: i costumi che realizzò per alcune comunità transessuali (altra sua ossessione di vecchia data: la fusione tra i sessi); i sette abiti disegnati per l’inaugurazione del suo museo a Figueras nel 1974, e l’attenzione per il lavoro dello stilista Paco Rabanne.
TABLEAU VIVANT
Dalì volle gli abiti del suo connazionale per un servizio fotografico dedicato alla moda spagnola che gli commissionò il Daily Telegraph nel 1968, e che fu ripreso dall’obiettivo di Jean Clemmer. Alla proficua collaborazione con il fotografo svizzero è dedicata oggi la mostra Salvador Dalì, Jean Clemmer un incontro, un’opera, aperta fino al 9 settembre alla Fondazione Sozzani di Milano, curata da Maddalena Scorzella. Sconosciuto ai più, Clemmer conobbe Dalì andando in pellegrinaggio nella sua residenza di Port Lligat nel 1962. Lì scattò per esempio molte delle foto dei tableau vivent che il pittore usava mettere in scena con modelle in casa sua. Di Clemmer sono inoltre le foto di scena del cortometraggio Le Divine Dalì: girato e andato distrutto in un incendio nello stesso anno, il 1964, non ne restano che queste immagini.