Corriere della Sera, 29 giugno 2018
I colori di Mimmo Germanà, sognatore che amò l’avventura
Quando, nel 1988, Mimmo Germanà (Catania, 1944 – Busto Arsizio, 1992) espone alla Tour Fromage di Aosta, il curatore, Gérard-George Lemaire titola la mostra Terra incognita (catalogo Fabbri). Janus, invece – pur rifacendosi al saggio del critico francese —, preferisce Paradisi perduti. E l’artista siciliano? Paradisi sconosciuti. Probabilmente per i temi: ruscelli, mare, montagne, rappresentati idilliacamente con un’esplosione di colori. Certo si trattava di paradisi apparenti. Sulla tranquillità del mare, in azzurro, incombeva una sorta di delusione-tristezza: di qualcosa di irrimediabilmente perduto. E questo qualcosa poteva essere un luogo, «condensato» nel dipinto: un impasto di fantasia e memoria reso con una pennellata espressionista, selvaggia di un esploratore che attraversava i luoghi impervi della pittura. Pennellate come lembi di fuoco, figure deformate di un artista, che a ben vedere, di «selvaggio» aveva ben poco. Certamente l’aspetto esteriore: amava andare in giro vestito come un metallaro con giubbotti di pelle nera lucida e borchie di metallo.
Lo avevo incontrato, per la prima volta, alla Biennale di Venezia, dove Achille Bonito Oliva lo aveva intruppato in Aperto ’80, assieme ai transavanguardisti della prima ora: Sandro Chia, Enzo Cucchi, Francesco Clemente, Nicola De Maria e Mimmo Paladino (Germanà era venuto dopo, assieme ad Ernesto Tatafiore e Nino Longobardi). Il movimento di Abo teorizzava un ritorno al colore, alla pittura manuale e nuotava contro l’arte concettuale: Germanà si era riconosciuto in queste istanze. Il pittore, nato in Sicilia, aveva un carattere istintivo. Proprio questo lo spingerà a lasciare l’isola e gli studi classici per tentare l’avventura romana. Un po’ come prima avevano fatto altri conterranei (Guttuso, Consagra, Accardi, Sanfilippo). A Roma frequenta l’Istituto d’arte e l’Accademia ed incontra Chia (venuto da Firenze) e Clemente (da Napoli) che fanno i primi esperimenti. Chia proietta sulla tela l’ombra di una rosa bianca, Clemente utilizza la fotografia: ma tutti hanno nostalgia dell’odore della pittura. Da qui, l’esigenza di tornare al quadro. Proprio allora entra in campo l’«allenatore» Bonito Oliva, che mette su una squadra; ma di elementi che sanno già come giocare. L’esordio avviene a Venezia con Aperto ’80 ma, per il momento, si risolverà tutto in una bolla di sapone. Germanà entra a far parte della Transavanguardia? A distanza di anni, quasi tutti negheranno di averne fatto parte. A certe soluzioni, ognuno dei «transavanguardi» ci arriva per proprio conto, probabilmente perché spinto dalle stesse istante culturali.
D’altronde la «transizione» non specificava un punto d’arrivo. Così, se nelle grandi linee i pittori potevano sembrare simili, in realtà ciascuno di essi rappresentava se stesso. Germanà aveva guardato agli espressionisti tedeschi di Dresda. Soprattutto a Kirchner. Ma, dietro, c’è anche l’amore per Matisse, Gauguin, Van Gogh, i fauves, Chagall (le figure aeree, fluttuanti). «Da tutti – mi dirà, in una intervista dell’88 – ho colto l’angolo nuovo, quello sfuggito ad altri. Sfuggito non per incapacità, ma solo perché io rifletto il mio tempo ed essi, naturalmente, questo tempo non hanno potuto viverlo».
In realtà, il pittore siciliano attraverserà la Transavanguardia come una meteora e, come un frammento di cometa, perirà nell’incendio. Non entrando in contatto con la Terra, ma facendo un certo tipo di vita.
A ventisei anni dalla morte, fauni in campo di grano, donne simili a onde, colombi verdi, albe, lune, notti, bagnanti, sirene, il cane Miró fra fiori e frutta, laghetti ed altri protagonisti fluttuano (sino all’11 novembre) in una mostra alla Fondazione La Verde La Malfa di San Giovanni La Punta (Catania). In catalogo testi di Antonino Bellia, Alfredo La Malfa, Giorgio Agnisola e Brunello Puglisi. E torna alla memoria l’immagine di questo artista che amava l’avventura. Ma, forse, più che l’avventura stessa, l’idea romantica che se n’era fatta.
Mimmo era un sognatore (portava a spasso Miró nei suoi paesaggi), che, una volta lasciata Roma, scorrazzava per Milano su motociclette di grossa cilindrata, facendo un baccano della malora, circondato da amici con l’aspetto di bulli. Al suo funerale (una pioggia sottile accompagnava il feretro quel 19 maggio del 1992) i «bulli» piangevano, mentre qualcuno di essi imprecava contro chi, proprio quel giorno, aveva scritto che Germanà era morto di Aids a soli 48 anni. Era risaputo, ma leggerlo sul «Corriere» diventava un’onta.