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 2018  giugno 25 Lunedì calendario

La grande truffa degli europaradisi

Si intitola «La ricchezza delle Nazioni» il classico di Adam Smith uscito nel 1776, o meglio «Un’inchiesta sulla natura e le cause» di essa. Una quindicina di giorni fa, il National Bureau of Economic Research degli Stati Uniti ha pubblicato uno studio che impone allo stesso titolo una torsione amaramente ironica: «I profitti scomparsi delle Nazioni». Il sarcasmo non è difficile da interpretare. Mentre il classico del filosofo scozzese rappresenta fondamento intellettuale delle rivoluzioni capitaliste degli ultimi due secoli, lo studio pubblicato dal Nber è una disanima solida e sconcertante di una contraddizione di fondo del capitalismo del ventunesimo secolo: la capacità delle grandi multinazionali di sottrarre quasi il 40% dei propri profitti all’imposizione fiscale dei Paesi nei quali quelli sono generati e le distorsioni che ciò crea fra nazioni e fra imprese soprattutto in Europa. È il capitalismo della grande elusione disegnata e consentita da governi propensi, talvolta, anche a impartire agli altri lezioni di buona gestione: Irlanda, Lussemburgo, Olanda, oltre a Svizzera, Belgio, Malta, Singapore, Hong Kong, Porto Rico o le isole dei Caraibi.
Al termine di un’analisi solida perché trasparente sui dati, lo studio mostra che i profitti esteri di grandi multinazionali trasferiti nel solo 2015 verso questi paradisi fiscali – una volta stimati con cautela – ammontano a una somma sorprendente: 616 miliardi di dollari, su 1.703 miliardi di utili netti di quelle imprese. Nel 2016 Google Alphabet ha registrato 19,2 miliardi di dollari di ricavi a Bermuda, un’isoletta dell’Atlantico dove quasi non ha dipendenti ma dove l’aliquota sui profitti delle società è a zero. Nel complesso, il 5% di tutti gli utili netti prodotti nel 2015 nell’economia mondiale sono sottratti al fisco dei Paesi nei quali quei profitti erano stati generati. E questa quota è pari al 36% di tutti i profitti di multinazionali come Facebook, Google, Microsoft o Nike. Al contrario le imprese piccole, medie o comunque su scala nazionale non riescono a condurre queste operazioni di migrazione contabile e subiscono una pressione fiscale molto più alta.
Gli autori dello studio, di cui L’Economia del Corriere della Sera aveva dato anticipazioni a febbraio scorso, sono Thomas Tørsløv e Ludvig Wier, due studenti di dottorato dell’Università di Copenhagen, e Gabriel Zucman dell’Università di California a Berkeley. Due le caratteristiche comuni di questi tre economisti: sono europei (i primi due danesi, il terzo francese) e hanno una trentina di anni o pochissimo di più. Rappresentano una nuova generazione di studiosi formatasi con la Grande recessione, quindi più scettici dei loro padri intellettuali quanto alla capacità del mercato globale di autoregolarsi e produrre esiti positivi per tutti nel lungo termine.
Il loro lavoro dissacra con la forza dei numeri. I tre mostrano che nel 2015 l’Irlanda abbia sottratto agli altri Paesi, in gran parte dell’area euro, almeno 106 miliardi di dollari di base imponibile attraverso il trasferimento contabile di profitti generati altrove. L’Olanda invece ha sottratto 57 miliardi e il Lussemburgo altri 47, mentre la piccolissima Malta 12. Colpisce che alcuni di questi Paesi siano fra i più intransigenti nell’esigere sanzioni o la ristrutturazione automatica del debito pubblico dei Paesi che non rispettano la disciplina di bilancio. Sarebbe dunque forse legittimo stabilire nei negoziati di Bruxelles un legame fra ogni accordo sulle regole di risanamento dei conti pubblici, dati i sacrifici sociali che ciò implica, e lo smantellamento dei paradisi fiscali intra-europei. Per nessun governo dovrebbe essere possibile esigere rigore di bilancio dagli altri e allo stesso tempo sottrarre loro ogni anno una vasta base fiscale.
Tørsløv, Wier e Zucman peraltro elencano anche coloro che hanno la peggio in queste dinamiche. Secondo i tre economisti, nel solo 2015 l’Italia ha perso 23 miliardi di dollari di profitti tassabili di multinazionali; la Francia 32, la Germania 55, la Gran Bretagna 61 e gli Stati Uniti 142 miliardi. Il fenomeno è talmente esteso da distorcere i risultati macroeconomici dei singoli Paesi, tra i quali il tasso di crescita o la bilancia commerciale. Per esempio, se si correggono i dati includendo i profitti fatti espatriare ad arte per ragioni fiscali, la bilancia commerciale italiana risulta più robusta di circa 17 miliardi di euro (a + 3,9% del prodotto lordo). Persino la Grecia emerge con un attivo negli scambi con l’estero, dopo aver ripulito i conti dell’effetto-elusione.
Un sintomo di queste distorsioni, nello studio Tørsløv, Wier e Zucman, emerge nel rapporto fra costo per lavoro e utili registrati. In Paesi come Italia, Francia, Spagna o Germania, i profitti lordi valgono circa un terzo di quanto le imprese spendono per pagare i lavoratori. Queste sono grandezze fisiologiche. In Lussemburgo e Irlanda invece gli utili valgono due volte e mezzo il costo del lavoro delle imprese e in Olanda si arriva al 70%: segno che esistono molte cassette delle lettere o scatole societarie vuote create solo per l’elusione fiscale, grazie alla promessa di prelievi bassissimi e spesso disegnati su misura da parte dei governi. È su questa base analitica che i tre giovani economisti fanno esplodere un assunto di base della generazione che li ha preceduti. La vecchia idea è che con la globalizzazione i Paesi competono fra loro abbassando le tasse sulle imprese per attrarre investimenti e creare lavoro. I tre rispondono che l’erosione delle aliquote si spiega con questo fenomeno di elusione e non genera investimenti: «I macchinari non si muovo verso luoghi a bassa pressione fiscale, gli utili sì».