Corriere della Sera, 27 giugno 2018
Il micro cellulare che beffa le guardie. Così i clan telefonano dal carcere
Entrati in produzione e commercio dopo il 2010, i micro cellulari sono diventati oggi uno dei principali oggetti del desiderio dei detenuti di tutta Italia. All’inizio avevano più o meno le dimensioni di una carta di credito, anzi, per essere precisi, di tre carte di credito sovrapposte, e perciò venivano chiamati «cellulari da portafoglio», ma la tecnologia va veloce, e da un paio d’anni sono arrivati sul mercato apparecchi che stanno larghi nel taschino dei jeans.
Il più piccolo è lungo 7 centimetri, largo 2 e spesso 1, e pesa, compresa la sim, 20 grammi. Ovvio che uno strumento di queste dimensioni abbia la indubbia caratteristica di passare inosservato, diciamo pure di essere quasi invisibile.
Ed altrettanto ovvio che sia entrato di diritto a far parte di quel campionario di articoli che da Bollate alla Bicocca i detenuti cercano – tramite i parenti o con la complicità di operatori infedeli – di far introdurre negli istituti di pena, in modo da rendere più agevole la reclusione.
Certo, il tempo delle lime, se mai c’è stato, appartiene alla preistoria. Oggi nelle carceri italiane entra innanzitutto droga, poi armi (ma questo pure è un discorso vecchio), e, ultimi arrivati, i cellulari. E più piccoli sono, più è facile eludere i controlli.
Ieri il Corriere del Mezzogiorno riferiva del micro-telefonino in chiave napoletana, ma in realtà lo strumento non ha connotazioni geografiche. Non viene nemmeno prodotto in uno di quegli scantinati dei vicoli del centro storico partenopeo trasformati in fabbrichette clandestine. Banalmente è made in China, e per entrarne in possesso non è necessario conoscere il pusher giusto, ma basta collegarsi via internet ai più importanti portali di e-commerce. Non servono nemmeno molti soldi: 30 o 35 euro al massimo, ma se si sa cercare lo si acquista anche con 20. Più spese di spedizione, ovviamente.
Insomma, può permetterselo chiunque, figuriamoci un detenuto che sborserebbe ben altre cifre pur di trovare il modo per parlare ogni giorno con moglie e figli (nel migliore dei casi), oppure per continuare a gestire dall’interno di una cella spaccio di droga, estorsioni o qualunque altro sia il core business della sua azienda criminale.
E la conferma arriva dalla cronaca. Dicembre 2016: un micro-telefonino viene trovato dalla polizia penitenziaria nella cella di un ex esponente della Mala del Brenta detenuto al Due Palazzi di Padova. Forniva l’apparecchio agli altri reclusi e si faceva pagare in generi di conforto: aveva una dispensa stracolma.
Luglio 2017: a distanza di pochi giorni scoperti apparecchi cellulari di piccolissime dimensioni nelle celle del carcere cagliaritano di Uta e in un pacco di dolci destinati a un rumeno detenuto nella casa circondariale di Bergamo. Settembre 2017: ancora un ritrovamento, stavolta a Torino, carcere Le Vallette.
«Ne rinveniamo continuamente – dice Donato Capece, segretario generale del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria – nonostante i controlli un modo per far entrare questa roba riescono sempre a trovarlo».
Come? Le tecniche saranno molte; una la spiega l’utente A.T. lasciando un commento sul sito dove ha acquistato il telefono: «It is very small and easy/painless to hide», è molto piccolo e facile da nascondere.