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 2018  giugno 28 Giovedì calendario

Obrador, il Messia tropicale che conquisterà il Messico

È davvero imparabile la corsa verso la presidenza del Messico dell’uomo che, sostenitori e avversari, definiscono come il nuovo “Messia tropicale”, eroe anti-corruzione e anti-narcos, che ieri notte ha chiuso la sua trionfale campagna elettorale davanti a 120mila fan nello stadio Azteca di Città del Messico, quello famosissimo per la “Mano de Dios”, il gol di Maradona all’Inghilterra. Nei sondaggi Andrés Manuel López Obrador, per tutti familiarmente Amlo, non ha avversari in questo Paese alla disperata ricerca di una svolta dopo quasi vent’anni di governi liberisti di centrodestra, dal Pan al Pri, che hanno lasciato soltanto macerie. Più di 200mila morti e un numero imprecisato di desaparecidos nella guerra dei narcos, a cui bisogna aggiungere – ricorda lo storico Jorge Volpi – «la corruzione senza freni a ogni livello della vita pubblica». Amlo, o meglio adesso “Amlove”, l’hashtag che i suoi elettori (si vota domenica) hanno scelto per spingerlo sui social, è un uomo del sud povero e agricolo. Viene dallo Stato di Tabasco, quello dei peperoncini piccantissimi, tra il Chiapas e lo Yucatan, dove i suoi genitori gestivano un piccolo negozio.
Politicamente è cresciuto nel Pri, il partito-stato messicano, per uscirne, e partecipare alla fondazione della nuova sinistra, il Prd, ai tempi di Salinas de Gortari e del primo patto scellerato del governo con i narcos. Era il 1988. Una decina di anni dopo, López Obrador divenne sindaco di Città del Messico e fu la sua stagione migliore, con indici di consenso elevatissimi, una rigorosa e austera gestione dei fondi pubblici, e molti programmi sociali. Nel 2006 si candidò per la prima volta alle presidenziali ma perse per una manciata di voti contro Felipe Calderón. All’epoca tutti erano convinti che la sua sconfitta fosse stata provocata da una pesante frode elettorale. Così migliaia di poveri e contadini occuparono lo Zócalo, l’immensa piazza centrale di Città del Messico, e lo nominarono “presidente legittimo”, con tanto di fascia e cerimonia presidenziale. La protesta andò avanti per settimane e terminò solo per sfinimento davanti al rifiuto del governo di ricontare le schede. Obrador perse anche nel 2012 e fu dopo quella sconfitta che fondò il nuovo movimento di “rigenerazione nazionale”, Morena, grazie al quale oggi è lanciato verso la vittoria.
Lontano dal Messico si crede che la spinta più forte alla sua ascesa, a 64 anni e dopo due sconfitte, sia stata l’elezione di Trump e la sua guerra contro i messicani. È vero che Obrador ha sfruttato la circostanza, iniziando la sua campagna due mesi fa sulla frontiera, a Ciudad Juarez; coniando lo slogan “Prima i messicani”; e promettendo di difendere i migranti centroamericani e i milioni di suoi concittadini che vivono negli Stati Uniti. Ma le ragioni profonde della sua popolarità sono endogene, tutte interne a un Paese sull’orlo dell’inferno, cui egli offre la rinascita, un ritorno alle origini, e una nuova rivoluzione come quella dei padri, da Pancho Villa a Emiliano Zapata. Le tre promesse di López Obrador appena eletto sono: vendere l’aereo presidenziale, tagliarsi lo stipendio, e trasformare il luogo dove dovrebbe vivere, la bellissima residenza di Los Pinos, in un centro culturale aperto a tutti. E poi un governo morigerato e nazionalista per combattere la corruzione di quella che definisce “la mafia al potere”. Vuole cancellare l’immunità oggi concessa ai funzionari governativi e governare direttamente via referendum. Dal sud povero, la sua base di consenso è andata crescendo tra le classi medie urbane e i giovani laureati, anche se adesso i suoi critici, tra i democratici, temono che accentri troppo potere se il suo partito dovesse stravincere conquistando la maggioranza anche al Congresso.
Finora i suoi avversari, per scongiurare questa vittoria annunciata, le hanno provate tutte. «Falso profeta», «un altro Chávez», e via denigrando con la minaccia che, se vincerà, la Borsa e il Peso crolleranno. Ma stremati da criminalità e corruzione sembra davvero che la maggioranza dei messicani sia pronta a scegliere come unica alternativa il nuovo “Messia”.