Annalisa Chirico per ''Panorama'', 27 giugno 2018
L’arte di Robertino Settebellezze, parrucchiere
Arredo minimal, zero fronzoli, i parrucchieri scivolano da un angolo all’altro dell’ampio salone, armati di phon e spazzole per capelli. Sul tavolino, all’ingresso, brilla il cesto di mandarini e ciliegie, sul bancone insiste la pila di libri consigliati dal padrone di casa. Lui è il coiffeur romano che ha fatto del proprio nome un marchio di qualità richiestissimo a Cannes e a Venezia, il tutto senza spendere un soldo in pubblicità. Un curioso caso di marketing, quello firmato Roberto d’Antonio.
Come si diventa il parrucchiere delle dive senza investire in annunci e campagne pubblicitarie? La reputazione è l’asset principale, il passaparola fa il resto. Non ho mai cercato successo e fama. Il mio biglietto da visita è lo stesso da trentacinque anni, non riporta neppure la parola ‘parrucchiere’. Quando avviai il primo negozio, non acquistai nessuno spazio sulle pagine gialle perché costava troppo. Il mio basso profilo è per alcuni una forma di snobismo, invece io sono fatto così. Se vuoi, è la mia fragilità.
In che senso? Sono un insicuro di carattere. Ancora oggi, alla soglia dei sessant’anni, ogni volta che affronto un cliente, per me è come se fossi al primo giorno di apprendistato. Mi sento perennemente sotto esame.
È vero che da bambino aiutavi tuo padre nella barberia di Nepi? In famiglia eravamo quattro figli, ognuno doveva darsi da fare. Non ho mai amato le barbe maschili, mi divertivo invece nel negozio di mamma dove potevo esercitarmi sulle chiome delle bambole, la mia vera passione. Tagliavo e riattaccavo le ciocche con il nastro adesivo anticipando la tecnica delle extension in voga oggi. Quando mi beccavano, erano sculacciate e rimproveri.
A quattordici anni hai preso armi e bagagli e sei partito, da solo, per Santa Severa. Non mi sono mai sentito figlio, forse questo non patisco la perdita dei genitori. Già allora avvertivo l’esigenza di cercare la mia strada, detestavo l’idea di essere mantenuto e volevo piuttosto aiutare la famiglia, come poi ho fatto. All’epoca quel lembo del litorale laziale era gettonatissimo, in pochi giorni trovai impiego presso un parrucchiere: di giorno lavoravo, di notte dormivo in negozio. La signora Franca Ciampi m’ingaggiò: al mattino inforcavo la bicicletta e arrivavo sotto casa dell’allora governatore della Banca d’Italia. Alle guardie del corpo che mi domandavano: lei è il barbiere?, rispondevo: sono il parrucchiere di donna Franca. Quando nel 1998 mia madre è scomparsa, l’allora moglie del capo dello Stato è venuta in negozio per farmi le condoglianze di persona.
Si deve a te l’amputazione del codino di Rosario Fiorello. C’è un tempo per ogni cosa, adesso lui sta bene così, con quel sale e pepe che fa tendenza. Io non ho una predilezione per il lungo o il corto, il biondo o il moro: ogni persona è un tipo, e deve somigliare anzitutto a se stesso. Ho accorciato i capelli di Mara Carfagna che ha guadagnato in autorevolezza. A Marianna Madia non li taglierei perché la chioma lunga le dona naturalezza.
La prima volta che la giornalista Carla Mosca ti presentò Rossana Rossanda tu ignoravi chi fosse. Quando la conobbi, lei mi chiese di apparire più frivola. Le risposi: sappia che non la cambierò mai. Ci siamo dati del lei fino alla fine. Adoravo quella donna minuta che diceva cose grandi con una tonalità moderna. Non si è mai arenata dietro un simbolo.
Ferilli, Benigni, Renato Zero, Sorrentino, Ferrari, Gerini, Golino, Lilli Gruber, Michele Santoro, Venier, Bruni Tedeschi…la tua lista di clienti è sterminata. Una tribù di ‘dantoniani’ che non si limita a farsi acconciare: ti invita alle prime, alle presentazioni dei libri, alle cene domestiche, ai compleanni dei figli… Io sono un imprenditore che lavora e usa rispetto verso ogni persona. Lo dico sempre ai collaboratori più giovani: la poltrona del cliente è un divisorio che impone educazione.
Forse il tuo non sbracciarti troppo attrae gli amici e anestetizza le cattiverie. Sono un gatto melanconico che vive bene nel proprio ambiente, non altrove.
Ai tempi del tuo negozio in piazza di Pietra, le donne impellicciate sostavano per ore sui gradini antistanti. Lavoravamo in uno spazio angusto di settanta metri quadri, con due soli lavaggi. Ricordo una giovanissima Giuliana De Sio che voleva tagliare una chioma indomabile, impiegai cinque ore per accontentarla. Una sera del novembre 1987, all’imbrunire, entrò in salone una donna con un paio di vistosi occhialoni scuri. Quando li tolse, mi ritrovai di fronte Dalila Di Lazzaro: rimasi letteralmente folgorato da cotanta bellezza in un corpo solo.
Mai attratto da una donna? Sono omosessuale dalla nascita.
Pure single, si direbbe. Nessuna convivenza, dalle otto fino alle venti di sera convivo con i miei collaboratori. Non so nuotare né sciare né giocare a carte. Dopo il lavoro, mi rifugio nel mio appartamento, invito a cena un amico, leggo un libro oppure vado al cinema, anche due volte a settimana.
E i figli? Non si può avere tutto, la genitorialità mossa dall’egoismo non mi convince. Ci vuole tanto amore.
C’è una donna che manca al tuo medagliere? Da Fanny Ardant a Jane Birkin: quelle che desideravo le ho pettinate tutte. Una volta dissi di no a Claudia Schiffer perché al festival di Venezia ho dato sempre la precedenza alle artiste italiane.
Fumavi cinquanta sigarette al giorno, oggi zero. In due anni hai perso cento chili. Ho smesso con gli eccessi del passato e ho subito un intervento di riduzione dello stomaco. Mangio sano e mi alleno quotidianamente per cinquanta minuti.
Quando verrà il momento di appendere le forbici al chiodo? Decide dio. Fosse per me, lavorerei fino all’ultimo istante. È la mia vita.