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Bergonzoni: «Tutti noi siamo vittime del geniocidio»
L’invito al “Bloomsday” di Dublino dieci giorni fa e le future collaborazioni con Enrico Terrinoni e Fabio Pedoni (i traduttori italiani del Finnegans Wake) gli conferiscono di diritto lo status di “joyciano doc”. Sì, perché Alessandro Bergonzoni, 59 anni, è quel “matto” coi capelli lunghi scarmigliati, il fisico da rugbista, attore, scrittore (ma anche pittore) che trent’anni fa cominciò a usare le parole come il grande autore irlandese dell’Ulisse. E ancora oggi, coi suoi spettacoli e libri non fa che scovare in ogni parola significati e allusioni sorprendenti, soluzioni inaspettate e tutte valide, e con questo lavoro di smontaggio e montaggio linguistico rimescola pregiudizi e giudizi, rovescia il pentolone dei luoghi comuni, spronandoci verso altri modi di guardare.
L’ultimo spettacolo, Trascendi e sali (dal 2 luglio al teatro Elfo-Puccini di Milano diretto insieme a Riccardo Rodolfi), sempre fra profezia e verità, delirio e arte, fa anche di più: dice che le parole devono diventare gesti, moto, «poesia che non si scrive su un foglio, ma si applica», sprona ad agire, a “capolavorare” (per restare nell’universo immaginifico di Bergonzoni), che vuol dire fare capo-lavori, come per esempio «un avvocato che arriva in tempo a una causa per aiutare il migrante di un Cio».
Uno spettacolo suddiviso in quattro tempi, in cui lui, Bergonzoni, si rivolge al pubblico ma anche alle quinte.
C’è ma poi sparisce.
Più politico di quelli degli anni addietro, «ma attraverso un’altra cavità, quella dell’anima e delle parole che diventano azione».
In che modo, Bergonzoni?
«La parola “tieni”, ad esempio, è un’azione: vuol dire tienimi, tieni la mia mano, non lasciarmi affogare, tienimi in Europa.
O “ancoraggio”: c’è dentro il coraggio e l’accoglienza, oggi che ogni porto sicuro è un morto sicuro, in nome della razza.
Ma l’unica razza che io conosco è un pesce».
Una frecciata per il ministro Salvini?
«Lei vede subito il risvolto nella cronaca politica. Io invece mi chiedo dove eravamo prima, quando si poteva fare qualcosa per i rom prima di questa follia patologica del censimento?
Capisco che chi non ha casa o lavoro ci provi per l’ennesima volta col voto e va bene protestare, io sono d’accordo, ma se non pratichiamo un’altra politica come pensiamo di cambiare?».
Cosa bisognerebbe fare?
«La politica deve diventare poetica, qualcosa che riguardi un cambiamento antropologico.
Oggi siamo al geniocidio, proprio così, geniocidio, abbiamo ucciso la parte più geniale di noi, quella artistica, fantastica. Invece la politica non si può dividere dalla parte artistica, poetica, spirituale.
Dall’anima. Qui mancano le anime, non i nuovi amministratori. Chi governa ha cancellato la parte spirituale, fantastica, interiore; certo non ce l’ha chi chiede censimenti, ma nemmeno la sinistra, più subdola, perché l’importante alla fine era avere i voti. Ma qui ci sono i votati alla morte, i migranti sono votati alla morte e mancano gli eletti, non i votati dagli elettori, ma le persone scelte. Io invoco un governo dell’anima, dove del caso Cucchi, ad esempio, non si occupi il ministro degli Interni ma quello della Cultura.
Ma lei mi stava chiedendo cosa si dovrebbe fare...».
Appunto.
«Lavorare su se stessi. Ogni cittadino dovrebbe trascendere, “trascendi e sali”, alzati, vai oltre, mettiti in piedi non stare più sotto, soggiogato dai dati, dai politici, oltrepassa quello che ti dicono i giornalisti che parlano solo e unicamente una lingua.
Dobbiamo “capolavorare”, diventare sovrumani non solo umani, fare cose alte, ma molto più alte. Se vogliamo cambiare le cose, la sola politica è quella interiore, politica e anima».
Non vorrà fare come Grillo e creare un movimento?
«Grazie, no-profet! Non voglio fare il profeta. Cominciai a dire queste cose in piazza a Bologna accanto a Grillo al Vday, è vero, ma il mio desiderio non è fare il capopopolo, dire seguite me, ma cambiate voi, dire non aderite al mio partito, ma alla vostra interiorità».
E oggi lo direbbe ancora da un palco accanto a loro?
«Forse su alcuni punti c’è contiguità ma continuo a marcare la mia differenza. Io perseguo la politica dell’anima e oggi la sento solo nel papa e nei preti, forse perché hanno a che fare con la spiritualità. Non si può parlare di povertà e migrazioni solo come di emergenze. Tutti dobbiamo essere poveri, migranti prima di loro. La politica può solo venire dopo un lavoro su noi stessi. Prima di parlare di stato italiano, stati europei, parliamo di stati d’animo dove ognuno di noi confina con l’altra persona e trasformare il con-fine in una linea senza-fine».
Pura utopia.
[/DOMANDA]«A forza di credere che sono utopie, nessuno fa niente. Pazzia è quello che vediamo in questi giorni. Almeno nella mia c’è un’altra anima».
Si rischia la solitudine...
«Mi sento solo quando leggo i giornali, quando ascolto un talk show. Non mi sento solo negli ospedali, nelle carceri, nelle scuole, perché lì sono bambino, carcerato. È questo il cambio di politica di cui parlo: la poetica. Il problema dei migranti siamo noi che non capiamo che dobbiamo cambiare, magari investire soldi da altre parti e cambiare anima agli amministratori. Per questo dico che il vero parlamento sono le scuole, gli asili, i musei, lì dove c’è la formazione delle persone. Ci vogliono anni, lo so, ma è la sola strada se vogliamo cambiare le cose».