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 2018  giugno 27 Mercoledì calendario

Matthew Desmond: “Hanno sfrattato il sogno americano”

Sì, Milwaukee è la città che molti conoscono per la serie Happy Days.

Peccato che i suoi giorni felici siano tramontati.
La città non è più quella del telefilm che ha fatto sognare l’America a molti. Il mercato del lavoro è crollato: come altre città del Rust Belt, la “cintura di ruggine”, un tempo cuore industriale del Paese, ora è in declino. Milwaukee è ormai un susseguirsi di fabbriche abbandonate. Parte della popolazione è impoverita, e su di loro incombe l’incubo della nuova piaga degli States: lo sfratto».
La piaga che Matthew Desmond, 38 anni, professore di sociologia a Princeton, ha scelto di studiare da molto vicino: vivendo per diciotto mesi fra gli emarginati.
È l’esperienza alla base di Sfrattati, l’indagine accademica diventata un bestseller da Pulitzer, appena pubblicato in Italia da La Nave di Teseo. Un viaggio fra i poveri della democrazia più ricca del mondo che si dipana attraverso le storie di otto famiglie: bianchi che vivono nei parcheggi di roulotte a sud della città, neri stretti in condomini fatiscenti all’estremo nord. Per dimostrare che la perdita della casa è solo l’apice di una spirale dalla quale è difficilissimo uscire.
Un miliardario come Bill Gates dice che il suo libro è l’unico a far capire cosa vuol dire essere poveri oggi in America. Barack Obama lo ha definito “indimenticabile”. Ma perché ha scelto di studiare proprio gli sfratti di Milwaukee, una città che – se pure in declino – non è disastrata come, ad esempio, Detroit?
«Finora gli studi sulle città americane riguardavano metropoli come New York e Los Angeles o città in rovina come appunto Detroit. Ma nel mezzo ci sono tanti altri luoghi dove gli americani vivono e che hanno tanto da rivelare. Ho scelto di occuparmi di sfatti perché nel puzzle degli studi sulle disuguaglianze in America mancava un tassello: ci sono studi su disoccupazione, carceri, droga. Ma nessuno sul legame che c’è fra perdita della casa e l’abisso della povertà».
Quello che ha scoperto, dice, ha sorpreso anche lei.
«Ormai in America si sfrattano centinaia di migliaia di persone ogni anno: non ne avevo idea. Solo a Milwaukee ci sono almeno 40 sfratti al giorno. Un abitante su otto ne ha subito almeno uno».
Anche il Fonzie di “Happy Days”, il donnaiolo italoamericano che faceva il meccanico, oggi sarebbe uno sfrattato?
«È probabile. Potrebbe essere uno dei tanti meccanici bianchi poveri che vivono nei parcheggi di roulotte. La gente perde la casa perché non riesce a pagare l’affitto nemmeno se ha un lavoro. Un tempo bastava il 30% dello stipendio: ora serve il 70».
Avere un tetto sulla testa è da sempre la chiave del sogno americano: è ancora così?
«Avere una casa è socialmente fondante. Senza, è difficile mantenere un lavoro, far frequentare ai figli la scuola, sentirsi al sicuro. Ecco perché le politiche per affrontare la povertà oggi dovrebbero riconoscere questo prima di ogni altra cosa».
Lei scrive che “povertà non è solo quanti soldi hai in tasca”: che cosa vuol dire?
«Vivere sotto la soglia dei 25 mila dollari l’anno è solo la punta dell’iceberg. Povertà è l’angoscia psicologica di un domani incerto. È il dolore cronico della vergogna. È vivere in posti che si detestano. Ma è anche mangiare male, non avere un medico, fare lavori pericolosi. È relazioni umane che si rompono, matrimoni che falliscono. L’essere esposti alla violenza fin da bambini. Finire nelle maglie di un sistema giudiziario che non guarda in faccia nessuno. La povertà è tutto questo: eppure pochi vedono ancora il nesso».
Perché questa cecità?
«Parliamo tanto di poveri: ma non parliamo con i poveri. Il disagio del vivere in povertà è qualcosa che la politica, di destra o di sinistra che sia, sottostima profondamente. Manca la consapevolezza che senza casa tutto va a rotoli: e che dunque dev’essere un diritto essenziale per costruire una società sana».
E le persone che ha incontrato che rapporto hanno con la politica?
«È lontana dalle loro vite. Quando cominciai a lavorare al libro Obama era alla sua prima campagna e molti afroamericani votarono per la prima volta per sostenerlo. Ma già ai tempi della rielezione erano disillusi. Se vivi nella brutale povertà, d’altronde, difficilmente vedi le potenzialità politiche della tua comunità».
Non ha mai temuto di lasciarsi coinvolgere troppo dalle vicende umane delle persone di cui scrive?
«Molti pensano che per essere oggettivo devi tenere le distanze: io credo il contrario. Più le relazioni si fanno solide e più impari. E cogliere l’umanità delle persone permette di offrirne ritratti che chi sceglie l’approccio distante non potrà fare».
A metà fra la sociologia e il giornalismo d’inchiesta. Premiato col Pulitzer. Il suo lavoro fa pensare allo stile del New Journalism.
«Sì, il New Journalism, e soprattutto il lavoro di Joan Didion, mi ha influenzato molto».
Studiosi e giornalisti dovrebbero insomma stare di più sul campo?
«È quel che provo a insegnare ai miei studenti. Se qualcuno mi dice: “Vorrei studiare la violenza nel ghetto nero di Baltimora”, ad esempio, io gli rispondo: “E allora vai a viverci per un po’”. Magari è l’ultima volta che vedo quello studente: ma con qualcuno funziona. Purtroppo il percorso universitario non insegna a scrivere di quel che si osserva in modo non noioso: ed è questa la più grave pecca di noi accademici. E anche dei giornali: investono sempre meno su quel tipo di lavoro che invece fa la differenza».
A proposito di fare la differenza: “Politico “la considera uno dei “50 studiosi che più influenzano il dibattito politico”. Ha già vinto il MacArthur, il “premio dei geni” e appunto il Pulitzer. Con la Fondazione Gates ha creato il primo database degli sfratti in America.
«Fin dall’inizio il successo per me ha significato scrivere un libro che potesse aiutare concretamente a cambiare la vita delle persone. Ci sto riuscendo: Sfrattati, che contiene storie ma anche statistiche, sta cambiando politiche, scardinando porte che erano blindate. E il database, lanciato ad aprile, ha già 8 milioni di sfratti in memoria. Ma ora dobbiamo elaborare quei dati per dare risposte pratiche».
Quella che racconta è una storia molto americana: qual è la lezione per il pubblico europeo?
«L’urbanizzazione del mondo ha portato all’abnorme crescita dei prezzi delle case. Per comprare un appartamento a Londra ci vogliono 30 anni di salario medio. Lo stesso a Roma, Milano, Lagos in Nigeria, Mumbai in India. Come per altre piaghe, l’America ha aperto la strada. Ma l’Europa e il mondo ci stanno, purtroppo, venendo dietro. Tornare a rendere le città vivibili diventerà un obiettivo senza confini».