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 2018  giugno 27 Mercoledì calendario

Il rombo di Trump anti Harley: «Via dagli Usa? La pagheranno»

«Se traslocano sarà l’inizio della fine per loro, disfattisti, traditori! L’aureola sarà sparita, e pagheranno più tasse che mai!». Esclamativi e minacce nel tweet di Donald Trump sono diretti contro un’icona del made in Usa: la moto Harley Davidson. Il presidente di America First non può tollerare l’oltraggio. Un simbolo così potente dell’industria nazionale, una leggenda immortalata dai film on the road come Easy Rider, osa trasferire produzioni all’estero. Già Harley Davidson aveva annunciato la costruzione di uno stabilimento in Thailandia, ora ne vuole aprire un altro in Europa. Ma è la logica conseguenza di un meccanismo avviato dallo stesso Trump. Il quale sembra non capire l’abc degli stessi dazi che lui ha varato. «Harley sappia che non riusciranno a vendere negli Stati Uniti senza pagare un grosso dazio!». Questa minaccia è a vuoto: Harley Davidson non ha intenzione di rivendere negli Usa le moto che fabbrica in Asia o in Europa. Quelle sono destinate ai mercati locali. E quindi non pagherà alcun dazio, anzi va all’estero proprio per evitare di rimanere stritolata nella guerra dei protezionismi.
I dazi servono a questo: creano un vincolo a produrre nei luoghi dove si vende, che è una potente controtendenza rispetto alle delocalizzazioni. Se va avanti così si chiude davvero un capitolo di storia della globalizzazione. Trump schiuma di rabbia contro Harley Davidson ma pochi giorni prima aveva incitato le case automobilistiche tedesche a fare la stessa cosa: venite a produrre qui negli Stati Uniti, o sarete colpite da nuove tasse doganali. Per ora la guerra dell’auto è solo una possibilità, gli unici dazi ad aver già colpito gli europei sono su acciaio e alluminio. È per reagire a questi, che l’Ue ha varato le sue contromisure, a danno di una lista di prodotti “made in Usa”. Harley Davidson era finita in quella lista, e ne ha tratto la conseguenza. Le multinazionali sono incitate a diventare sempre più… “nazionali”, radicando le capacità produttive vicino ai consumatori. Trump gioca a fare l’apprendista stregone, probabilmente non calcola tutte le ripercussioni della sua strategia commerciale. Alcune perfino positive per l’impatto ambientale: se le grandi aziende vanno a fabbricare là dove vendono, avremo meno navi portacontainer che solcano gli oceani, meno emissioni di CO2 legate al commercio globale. Sposteremo gli impianti produttivi, meno spesso le merci. A patto che la guerra commerciale continui – e finora la Casa Bianca non dà alcun cenno di pentimento, a parte l’occasionale rabbia verso Harley Davidson – uno degli effetti potrà essere una re-industrializzazione di quei Paesi che hanno sofferto delle delocalizzazioni. Ciascuno si riporterà a casa un po’ di tessuto manifatturiero.
È difficile però che questa guerra finisca con un pareggio. Trump mostra di avere istinto: poiché è l’industria americana ad aver inaugurato per prima le delocalizzazioni, e poiché gli Usa sono il mercato più aperto del mondo, i benefici per loro possono rivelarsi superiori. Per una Harley Davidson che porta in Europa un po’ di lavoro, sono molto più numerose le aziende americane che potrebbero rimpatriare produzioni. L’eurozona esporta il 27% del suo Prodotto interno lordo mentre gli Stati Uniti ne esportano solo il 12%. Il caso dell’auto tedesca è emblematico, malgrado i tre big (Mercedes, Volkswagen-Audi, Bmw) abbiano da tempo delle fabbriche in Alabama, continuano a esportare 1,2 milioni di vetture dalla Germania agli Stati Uniti. Se i dazi le convincono che è meglio produrre quasi tutto qui, sarà un colpo per la classe operaia tedesca, e un guadagno netto per i colletti blu americani. Questo si aggiunge a un rimpatrio di capitali che è già in atto per convenienze fiscali: nel primo trimestre di quest’anno le multinazionali Usa hanno riportato a casa 300 miliardi di dollari. I mercati sembrano cogliere questa asimmetria. Tra maggio e giugno i gestori dei fondi hanno ritirato 17 miliardi dalle Borse europee e 8 miliardi dai bond del Vecchio continente. I titoli americani sono saliti al 58% nei portafogli finanziari globali: un record dall’elezione del novembre 2016.