Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  giugno 27 Mercoledì calendario

Quei bimbi rapiti in Spagna dal ginecologo del Caudillo

Entra in aula strascicando i piedi, si abbatte sulla sedia davanti alla corte, scomposto, e durante l’interrogatorio dice non capire le domande, fa fatica a parlare. Di certo a rispondere. Tanti i «non so, non ricordo» alle domande incalzanti della pubblica accusa. Eduardo Vela, 85 anni, è il ginecologo franchista accusato di aver sottratto una neonata nel 1969 alla madre biologica e di averla consegnata a un’altra donna. 
È il primo processato in Spagna per lo scandalo dei bebé robados: migliaia di vite strappate, di identità rubate e l’impossibilità di ricostruirsi come persone, senza verità, senza giustizia né riparazione. Sono passati 43 anni dalla morte del caudillo Francisco Franco ma, a differenza delle abuelas de la plaza de Mayo, la ferita delle madri spagnole e dei loro figli, sottratti sistematicamente a oppositori o a madri senza mezzi e dati illegalmente in adozione alla nascita, per essere educati ai valori «di Dio e della patria», è sempre aperta. Una pratica criminale che sarebbe poi andata avanti negli anni Ottanta e fino ai Novanta come traffico lucrativo. Finora non è mai stata squarciata la cortina di silenzio. 
Nel 1980 l’allora giudice Baltazar Garzon stimò in almeno 100mila le vittime della trama. Oltre duemila le denunce archiviate prima ancora di arrivare a giudizio. «Vogliamo giustizia!», scandisce la folla fuori all’Audiencia Provinciale all’arrivo di Ines Madrigal, unica vittima riuscita a inchiodare sul banco degli imputati Eduardo Vela, l’ex direttore della clinica madrileña San Ramon. Era l’epicentro del macabro traffico che, secondo l’accusa, faceva capo a lui e al suo braccio destro, suor Maria Gomez Valbena, morta nel 2013, quattro giorni dopo l’interrogatorio. Presidente dell’Associazione Niños Robados di Murcia, Ines Madrigal non avrebbe potuto vincere la battaglia se non avesse avuto a suo fianco i genitori adottivi. Ha dovuto denunciare Ines Perez, la donna che aveva chiamato mamma per tutta la vita, morta nel 2016 a 93 anni, perché fosse citata a testimoniare contro il ginecologo. 
RITRATTAZIONI «Se non fosse stato per lei, che ha detto la verità, che il mio certificato di nascita firmato da Vera era falso, perché lei era sterile, oggi non saremmo qui», ha riconosciuto Ines all’arrivo in Tribunale. «Il ginecologo le suggerì di fingere la gravidanza e le nausee e di imbottirsi il ventre con cuscini, prima di ricoverarsi in clinica e fingere il parto», ha ricordato la figlia adottiva, ascoltata come teste. Durante la fase istruttoria, Vela aveva riconosciuto come sua la firma sul documento ufficiale di un parto che non è mai esistito. «Non sapevo quello che firmavo», ammise allora. Ma ieri in aula ha ritrattato: «Questa non è mia». E nemmeno ha risposto sui registri di nascita dei neonati, con l’identità materna, dei quali durante il primo interrogatorio, nel 1981, aveva ammesso l’esistenza. «Io mi occupavo solo dell’aspetto medico», ha tagliato corto. Sul caso concreto di Ines Madrigal ha ripetuto: «Io non ho dato nessuna bambina a nessuno». Ma era lui che «si occupava di tutto», come ammise davanti alla polizia il suo ex socio nella clinica, Manuel Fernandez Marcote. Che, però, ieri al processo si è schermato dietro ripetuti «non so, non ricordo». La sentenza è attesa a partire da domani.