La Stampa, 27 giugno 2018
L’orrore dell’infinito
Il senso religioso dei Greci ha considerato l’infinito, non secondo l’anelito moderno, come il punto più alto e desiderabile per l’uomo, ma come un male e una condanna, e ha risolutamente bandito nel Tartaro i Titani che ne erano la personificazione divina. L’infinito e i Titani erano entrambi senza misura. Fra i Titani, Tantalo è tormentato da una sete inestinguibile, infinita; Sisifo ripete di continuo, coattivamente, lo stesso gesto: spinge faticosamente in salita un masso, che poi rotola giù, ed è costretto a riportarlo in cima ogni volta. L’impresa di Sisifo, indefinita, priva di orientamento e di scopo, è precisamente ciò che Hegel chiamava il cattivo infinito.
Ma esisteva per i Greci un’infinità compatibile con il limite e la misura, di segno opposto a quella del mondo violento e smisurato dei Titani? Eccezioni e sfumature a parte, la risposta è no, un’infinità di questo genere non esisteva. L’infinito greco, l’ápeiron, era propriamente l’indefinito, il senza-limite. Ed era proprio la parola «senza» a decretare la negatività dell’infinito greco, la sua smisuratezza e la sua affinità con l’assenza e la privazione, con ciò che i Greci chiamavano stéresis. La stéresis traccia la linea di separazione tra il potenziale e l’attuale e significa in breve che «non tutto può diventare tutto» e che «non tutto ciò che una cosa per sua natura può diventare, è già». (…)
Aristotele
Aristotele fece della stéresis, della privazione, un principio del divenire, accanto a forma e materia. Una condizione perché il bronzo diventi una statua o che assuma una qualsiasi altra forma è che ne sia inizialmente privo. Le dottrine cabalistiche del XIII secolo ripresero le teorie aristoteliche, fino a prospettare la privazione dell’infinito come l’essenza stessa di Dio, alla cui contrazione e autolimitazione il mondo doveva la propria esistenza. Lo stesso destino dell’essere umano ne era segnato: uno stare sul crinale tra finito e infinito, un essere in bilico sul bordo che separa Dio dal mondo del divenire. Si apre così un abisso al darsi di ogni qualcosa. «Nessun essere è completo, ma ciascuno è per sua natura spezzato e incompiuto», perché la sua vera radice «è piantata nel nulla divino».
Per rimarcare l’affinità tra ápeiron e stéresis, tra infinito e privazione, Aristotele spiegava che l’infinito non è ciò al fuori di cui non c’è nulla, ma ciò al di fuori di cui c’è sempre qualcosa. L’infinito era puro divenire, pura potenza; era sempre incompleto e diventava sempre «altro» (állo). (…)
L’infinito era un percorso dispersivo e straniante, un pericolo per l’anima, perché, avvertiva Platone, non c’è nessuna speranza di verità nel lasciarsi portare da una cosa all’altra, nel lasciarsi sedurre indefinitamente da ciò che, diventando sempre altro, si riduce a immagine errante e illusoria. Nella tarda antichità Boezio avrebbe chiamato l’infinito dedecus malitiae, un «mostro di malizia». (…)
La matematica greca proiettava il numero nello spazio geometrico, dimostrando che semplici costruzioni geometriche consentono di concepire entità che con i numeri non si possono rappresentare. Ma la geometria aveva due volti: uno visibile, disegnabile, oggetto della phantasia e dell’immaginazione; l’altro invisibile, nascosto e accessibile alla sola sfera noetica, alla comprensione intellettiva. Noi non vediamo, ad esempio, l’incommensurabilità tra due grandezze, non percepiamo con i nostri sensi, neppure nell’evidenza di un disegno, l’impossibilità di trovare una comune unità di misura per il lato e la diagonale di un quadrato oppure di un pentagono regolare. Siamo però in grado di catturarne l’idea per mezzo di postulati e dimostrazioni. (…)
Nel XIX secolo i matematici furono tentati dall’impresa più ambiziosa: concepire l’infinito come entità positiva, un infinito attuale di numeri concepiti come un tutto. Ma i numeri infiniti introdotti da Georg Cantor potevano disporsi in insiemi ordinati di ampiezza vertiginosa, aumentabili a loro volta all’infinito, e rivelavano allora una singolare affinità con la natura elusiva ed enigmatica del continuo matematico, con quelle grandezze infinitamente divisibili e senza lacune che erano già state dominio dei paradossi di Zenone. Lo stesso Cantor diceva di pensare l’insieme [infinito] come un abisso. (…)
Il Novecento
Tuttavia nel primo ‘900 la fede nell’esistenza matematica dell’infinito cominciò a vacillare e subentrò una drammatica crisi dei fondamenti che durò qualche decennio. L’infinito era il principale indiziato, perché erano di solito gli insiemi infiniti a generare contraddizioni. Nei commenti dei più eminenti matematici di allora sembra così di riudire in controcanto la diffidenza per l’infinito già espressa, nel corso dei secoli, nelle pagine di Plotino, di Spinoza, di Hegel, di Kierkegaard e di Leopardi. (…)
Più intransigenti sarebbero stati i matematici nel XX secolo, nel ribadire che l’infinito non esiste da nessuna parte, che le teorie di Cantor sugli insiemi infiniti erano contraddittorie, che il continuo geometrico o aritmetico è una nostra idealizzazione, di cui lo spazio reale potrebbe anche fare a meno. Con la matematica dell’ultimo secolo la negatività dell’infinito riaffiora e si riafferma in tutta la sua evidenza. (…)
L’inafferrabilità dell’infinito come entità attuale e perfetta è una conseguenza delle ricerche della logica e della matematica del ‘900, ma resta comunque un’insopprimibile esigenza della nostra mente, che non cessa di elaborare costruzioni simboliche capaci di rappresentarlo. Compito della matematica è sempre stato quello di garantire la solidità di quelle costruzioni, e di mantenersi anche oscuramente consapevole (…) che la meta a cui siamo orientati supera di gran lunga quella che possiamo raggiungere con i nostri calcoli.