la Repubblica, 26 giugno 2018
E il caso batté la malaria
Migliaia di anni fa nel Sahara nacque un bambino speciale. All’epoca il continente non era un deserto, ma una verdeggiante striscia di savana e terreni boschivi, di laghi e fiumi, dove prosperavano gruppi di cacciatori e raccoglitori, che pescavano pesci e uccidevano gli ippopotami con le loro lance.
Una mutazione genetica alterò l’emoglobina del piccolo, la molecola nei globuli rossi del sangue che trasporta l’ossigeno in tutto il corpo. Non fu una mutazione dannosa: per ogni gene ci sono due copie e l’altro gene dell’emoglobina di quel bambino era normale. Il piccolo sopravvisse, mise su famiglia e trasmise quella mutazione alle generazioni successive.
Quando le praterie si trasformarono in deserto, i discendenti dei cacciatori-raccoglitori divennero pastori di bestiame e coltivatori e si trasferirono in altre zone dell’Africa. La mutazione si trasmise per generazioni, e a buon motivo: chi ne era portatore era protetto da uno dei pericoli più grandi, la malaria. C’era, però, un problema: ogni tanto capitava che due discendenti di quel primo bambino si incontrassero e mettessero su famiglia, con la conseguenza che alcuni dei loro figli ereditavano due copie del gene mutante dell’emoglobina e non una sola. Quei bambini non potevano più produrre l’emoglobina normalmente. Di conseguenza, i loro globuli rossi erano difettosi e ostruivano i vasi sanguigni. È una condizione nota oggi come anemia a cellule falciformi, porta forti dolori, difficoltà respiratorie, insufficienza renale e perfino ictus.
È probabile che nelle prime società umane la maggior parte dei bambini colpiti da anemia a cellule falciformi sia morta prima del compimento dei cinque anni. In ogni caso, la protezione contro la malaria assicurata dall’unica copia della mutazione delle cellule falciformi continuò a diffondersi.
Oggi, a distanza di oltre 250 generazioni, la mutazione è stata ereditata da milioni di persone. La stragrande maggioranza vive in Africa, ma ce ne sono molti altri anche in Europa meridionale, Medio Oriente e India: ogni anno nascono circa 300mila bambini con l’anemia a cellule falciformi. Questa lunga catena di eventi è stata ricostruita da una ricerca condotta presso il Center for Research on Genomics and Global Health degli Nih, da Daniel Shriner e da Charles N. Rotimi, e pubblicata sull’American Journal of Human Genetics.
In Africa i ricercatori hanno individuato globuli rossi falciformi in persone che vivono in un’ampia fascia di territorio, dalla Nigeria all’Africa occidentale alla Tanzania a est. Le cellule falciformi sono state individuate in percentuali più alte nelle popolazioni di alcune zone del Vicino Oriente e dell’India e in paesi dell’Europa meridionale come la Grecia. Da un punto di vista genetico non ha senso: tenuto conto che ereditare due copie dello stesso gene è così letale, la mutazione col passare delle generazioni avrebbe dovuto diventare più rara, non più comune. Nel 1954, un genetista sudafricano di nome Anthony C. Allison si accorse che in Uganda alcune persone portatrici di una copia della mutazione delle cellule falciformi soffrivano meno di infezioni di malaria rispetto a quelle con emoglobina normale. E la ricerca oggi lo conferma: l’ipotesi è che la mutazione delle cellule falciformi protegga dalla malaria perché affama il parassita unicellulare che provoca la malattia. Il parassita si nutre di emoglobina, e quindi è possibile che nella versione delle molecole con cellule falciformi non sia in grado di crescere.
«La cellula falciforme è un raro esempio di evoluzione umana nel quale riusciamo a farci un’idea di quello che è accaduto e del perché è accaduto», ha detto Bridget Penman, esperta di malaria all’università di Warwick in Inghilterra. Che ha aggiunto che gli scienziati dovrebbero studiare anche le diverse variazioni genetiche individuate nella nuova ricerca: esse potrebbero contribuire infatti a spiegare perché la mutazione delle cellule falciformi porti a sintomi mortali in alcune persone e a una sintomatologia più lieve in altre, cosa che per il momento gli scienziati non sono in grado di spiegare. «Capirlo ci potrebbe aiutare a mettere a punto una terapia», ha detto.
(traduzione di Anna Bissanti)
©2018 The New York Times Company