la Repubblica, 26 giugno 2018
Sulla morte della sinistra italiana
La morte ufficiale della sinistra italiana, quella nata dalla Resistenza e cresciuta nella ricostruzione, avvenne il 23 novembre del 2014, quando alle elezioni in Emilia-Romagna partecipò solo il 37 per cento degli elettori, e Matteo Renzi appallottolò l’atto di morte convinto che non lo riguardasse (c’era anche il suo nome, in fondo all’elenco; non se ne accorse). Ma quella morte comincia molto prima, precede il nuovo millennio. La sinistra delle sezioni, del partito, del sindacato, dello Stato sociale, comincia a morire mano a mano che la generazione dei Padri rossi, sobri e moralisti, legalitari e statalisti, vede il proprio edificio sgretolarsi sotto i colpi colorati e travolgenti dell’edonismo libertario dei Figli (bisognerebbe, sotto questa luce, rileggere il ’77 bolognese); che, come spiegarono filosofi francesi allora molto à la page, non volevano obbedire, volevano godere. E chi, del resto, preferirebbe obbedire piuttosto che godere? Io nel ’77 ero con il Pci. Ma preferivo leggere Andrea Pazienza, e presto avrei lavorato con lui. In questo senso la morte della sinistra italiana è speculare alla morte del liberalismo borghese.
Mi disse Montanelli, ormai vecchissimo: il borghese così come lo incarno io non esiste, è solo una finzione virtuosa, esattamente come il proletario comunista dei tuoi sogni.
È vietato vivere di ricordi. Importa, urge il futuro. Proprio per questo mi piacerebbe molto, morti e sepolti il borghese liberale e l’operaio comunista, capire che cosa sognano gli altri.